Un territorio, due giustizie, una per i coloni israeliani e un’altra per i palestinesi. È la Cisgiordania. Due date spiegano bene come funziona la doppia giustizia, per gli occupanti israeliani e gli occupati palestinesi. Sera del 12 giugno del 2014. Tre ragazzi ebrei – Gilad Shaer, Naftali Frankel, Eyal Ifrach – scompaiono nella zona tra Betlemme ed Hebron. Le autorità israeliane denunciano un sequestro a scopo politico compiuto da una cellula di Hamas. Nei giorni e nelle settimane seguenti circa 400 palestinesi sono arrestati e un’altra trentina restano uccisi durante i raid e le incursioni dei militari israeliani in città e campi profughi. L'”indagine” sfocia nell’offensiva israeliana “Margine Protettivo” contro Gaza, con le conseguenze devastanti che conosciamo. Notte tra il 30 e il 31 luglio 2015. Due case palestinesi sono date alle fiamme nel villaggio di Duma, a ovest di Nablus. Nel rogo, attribuito subito dalle stesse autorità israeliane a ultranazionalisti ebrei, muore arso vivo il piccolo Ali Dawabsha, 18 mesi, e una settimana dopo il padre Saad (la madre e il fratello sono ancora in ospedale in condizioni critiche). Undici giorni dopo, esercito e servizi segreti israeliani non sono andati oltre qualche fermo in alcune colonie e un ordine di detenzione amministrativa (senza processo) per sei mesi nei confronti di tre estremisti ebrei già noti per i loro ripetuti attacchi contro moschee, chiese e villaggi palestinesi. Tutto qui.

 

L’altra sera, qualche ora dopo la morte in ospedale di Saad Dawabsha e l’annuncio dell’arresto di nove israeliani nella colonia di Givat HaBladim e nell’avamposto colonico di Adei Ad (vicino a Kfar Duma), l’agenzia di stampa della destra religiosa Arutz 7, aveva riferito dell’imminente liberazione di tutti i fermati per mancanza di prove. Ed è andata proprio così. Tutti i fermati sono stati rilasciati. Alla luce della tanto sbandierata efficienza del servizio di sicurezza interno israeliano (Shin Bet), è davvero difficile credere che gli investigatori non abbiano alcuna pista o elemento utile per arrivare ai colpevoli del rogo di Kfar Duma. Qualche giornale israeliano sostiene che le indagini presto porteranno alla cattura dei responsabili della morte di Saad e Ali Dawabsha. Al momento però poco o nulla è seguito ai proclami sull’uso del “pugno di ferro” con gli estremisti lanciati dal premier Netanyahu e la condanna del terrorismo ebraico fatta dal capo dello stato Rivlin. La doppia giustizia emerge ad ogni occasione. Da parte loro i palestinesi ripetono di avere il diritto di proteggersi e continuano ad organizzare “comitati di difesa” per i villaggi più esposti a possibili raid notturni. Fatah, il partito del presidente dell’Anp Abu Mazen, raggiunto da critiche durissime dopo il progrom a Kfar Duma, ha annunciato attraverso il suo rappresentante a Qaliqilya, Mahmoud Waloul, la formazione di una sorta di “guardia nazionale” a protezione dei centri abitati.

 

Ben diversa è la velocità degli investigatori israeliani quando i sospettati sono palestinesi. Ieri, ad esempio, è stato rinviato a giudizio un abitante della Cisgiordania, Osama Asaad, accusato di complicità nell’uccisione di un colono israeliano compiuta a giugno da un altro palestinese, Mohammed Abu Shaheen, arrestato poco dopo l’attacco. In pochi giorni lo Shin Bet è arrivato ai presunti colpevoli. Nel frattempo l’esercito israeliano continua i suoi raid notturni alla caccia di “terroristi arabi” nei villaggi della Cisgiordania e i soldati dimostrano una eccezionale prontezza di riflessi nel fare fuoco immediato alla prima minaccia vera o presunta portata da palestinesi. È accaduto la scorsa settimana quando un palestinese ha investito e ferito, intenzionalmente secondo le autorità, tre soldati (l’uomo è stato ucciso da uno dei tre militari non appena è uscito dall’auto). Ed è accaduto anche domenica sera quando un giovane palestinese è stato abbattuto da numerosi colpi pochi attimi dopo aver ferito un israeliano a una stazione di rifornimento. Sono 23 i palestinesi uccisi tra Gaza e Cisgiordania dall’inizio dell’anno.

 

Intanto i riflettori tornano su Mohammed Allan, un avvocato palestinese in detenzione amministrativa, che da 57 giorni fa lo sciopero della fame. Il prigioniero è stato trasferito ieri in un centro medico specializzato ad Ashkelon dall’ospedale di Beersheva, in seguito al rifiuto dei medici di alimentarlo con la forza come prevede la legge approvata di recente dal parlamento israeliano. Ad Ashkelon, scrivevano ieri i siti israeliani, Allan potrebbe essere posto in regime di nutrizione forzata contro la sua volontà. Critiche si sono levate anche in Israele contro quella che è considerata una forma di tortura.