Sospira Bruno Pesce. È l’ultimo passo, forse il più difficile, perché sia finalmente scritta la parola «giustizia» per una lotta lunga 35 anni. Sospira, tutta Casale Monferrato; aspetta con ansia il verdetto della Corte di Cassazione sul processo Eternit. È atteso per mercoledì, a Roma. Sul banco degli imputati, dopo la morte del barone belga Louis de Cartier, è rimasto il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, ex amministratore delegato della multinazionale della fibra killer, condannato in secondo grado dalla Corte d’appello di Torino a 18 anni di reclusione per disastro doloso.

Pesce, coordinatore della vertenza amianto, esce dalla sede della Cgil, dopo l’ultima riunione in vista del viaggio a Roma. Sono giorni pieni, la macchina organizzativa è imponente: saranno un centinaio i casalesi che arriveranno nella capitale, oltre a decine di ospiti internazionali (delegazioni da Svizzera, Francia, Belgio e soprattutto Brasile, da dove arriveranno in 38, magistrati compresi), a testimonianza dell’attenzione straniera per un processo storico. Bruno si sfrega la fronte. Spera in un esito positivo. Si augura che la Corte Suprema «confermi il disastro ambientale, il dolo e la permanenza del reato, perché di gente a Casale ne è morta molta e continua a morirne». Ma il timore è quello di un’altra Thyssen, ovvero che la Cassazione ordini un nuovo processo d’appello per rideterminare le pene. Sarebbe una beffa per le migliaia di vittime e i loro familiari, che, da quando il procuratore Raffaele Guariniello ha iniziato l’indagine, hanno incominciato a credere in una giustizia diversa. L’udienza preliminare ebbe inizio il 6 aprile del 2009; al Tribunale di Torino arrivarono in tanti, anche chi era già malato e chi non sarebbe sopravvissuto alla sentenza.

Oggi, i timori hanno un fondamento. Lo dicono a denti stretti: «Ultimamente, in Italia, dal caso Cucchi all’Aquila, si sono ripetute sentenze scoraggianti». Casale, invece, ci spera.

Sono morte 2 mila persone – la maggior parte senza aver mai messo piede nella fabbrica di via Oggero – nella cittadina piemontese di 35 mila anime. Ogni anno, si verificano oltre 50 nuovi casi di mesotelioma pleurico o peritoneale, il tumore dell’amianto. Ci sperano, anche, gli altri comuni che ospitavano gli stabilimenti Eternit: Cavagnolo (Torino), Rubiera (Reggio Emilia) e Bagnoli (Napoli). In questi casi, Schmidheiny è stato ritenuto responsabile del disastro provocato.

Tra le eredità del Novecento, il cemento-amianto è una delle più pesanti. Fu brevettato nel 1901 dall’austriaco Ludwig Hatschek e battezzato «Eternit», dal latino aeternitas, eternità.
Tenace anche nell’uccidere: 100 mila l’anno i morti nel mondo. È tuttora largamente utilizzato in Cina, Brasile, Russia, India; il Canada lo produce e lo esporta nei paesi in via di sviluppo e del Terzo mondo. In Italia, dove è vietato dal 1992, il disastro resta permanente. Un tempo la polvere volava dappertutto, a Casale esisteva, addirittura, una spiaggia bianca, ben poco caraibica, sul Po, formatasi dall’accumulo dei detriti. Era frequentata da adulti e bambini. Ecco perché, accanto alla lotta per la giustizia, l’Afeva (Associazione familiari e vittime amianto) porta avanti quella per la ricerca e la bonifica. Secondo un’indagine dell’Arpa, in Piemonte sono 13 mila i siti in cui è stata rilevata presenza d’amianto.

Schmidheiny, in appello, è stato riconosciuto responsabile di un disastro «ritenuto permanente». Nonostante ciò, non si è mai presentato al processo, si è sempre dichiarato innocente e ha finto di ignorare quel che capitava alla Procura di Torino. In realtà, ne era particolarmente preoccupato, dipingendo – in privato – Guariniello come il «nemico numero uno» e costruendosi – in pubblico – l’immagine del filantropo (senza, però, donare un soldo alle bonifiche) e del greenwasher (è stato consulente di Clinton). Ultimamente ha lanciato sul web un sito, espacioschmidheiny.net, in cui si descrive come capro espiatorio («Avevo 29 anni quando presi la guida dell’impresa», ripete) e ricorda la presenza di altre aziende che a Casale lavoravano l’amianto. Ma dimentica che quando l’Eternit chiuse «lasciò lo stabilimento con vetri rotti e polveri ovunque» racconta Nicola Pondrano, ex operaio e attuale presidente del Fondo nazionale vittime dell’amianto. Compagno di lotta di Pesce e di Romana Blasotti, presidente dell’Afeva e cinque morti in famiglia. «È come se cercasse una forma di correità» aggiunge Pondrano.

Questa strategia di doppia morale o, meglio, di disinformazione, non è una novità. Il magnate svizzero l’ha adoperata da subito. Lo racconta Alberto Gaino, meticoloso cronista della Stampa, nel recente Falsi di stampa (Edizioni Gruppo Abele) in cui delinea il sistematico depistaggio e le rituali operazioni di occultamento a cui, fin dal 1976, Schmidheiny ha fatto ricorso: sono prove di un’azione dolosa. Niente panico, sosteneva, seppur fosse a conoscenza dei rischi. I giornalisti italiani venivano schedati dalla società milanese Bellodi. L’obiettivo era tenere bassa l’attenzione. Ma, quando si trovò sulla strada Guariniello e il movimento di Casale, qualcosa andò storto.

La sentenza è attesa in serata, ma potrebbe essere rinviata di una settimana. Davanti alla Cassazione ci sarà un presidio, organizzato da Afeva con, tra gli altri, i sindacati e Voci della Memoria. In caso di sentenza positiva, inizierà subito l’altra battaglia. Quella per il recupero dei risarcimenti, non facile, visto che l’imputato vive in Costa Rica e non ha beni in Italia: «Chiederemo aiuto allo Stato italiano».