Alice e Jack vivono quella che si potrebbe definire banalmente un’esistenza da sogno. Come in una favola, sono belli, si amano, fanno sesso ripetutamente, persino sui tavoli (in questo caso più Il postino suona sempre due volte che Biancaneve o Cenerentola), non hanno problemi economici, possiedono una bella villetta anni Cinquanta in una fantomatica cittadina verde, la comunità di Victory, nella quale tutti gli uomini con un senso innato per la coreografia (La La Land) si avviano al lavoro, mentre le mogli rassettano e preparano cene ad alto contenuto calorico senza temere l’esito di una bilancia che segna sempre lo stesso numero di chili. Se dovessero andare a votare la settimana prossima, sceglierebbero la continuità. Perché mai cambiare, se al dolce si alterna l’orgasmo?
Il fatto è che nel ripetersi programmatico dell’esistenza (The Truman Show), dove passato e futuro confluiscono indistinti in un eterno presente (1984 di George Orwell), prima o poi si aprono delle piccole fessure che possono essere maldestramente coperte, ma intanto quelle continuano ad allargarsi fino a trasformarsi in autentiche voragini, resistenti a ogni opera di manutenzione. E allora, nel caso di Don’t Worry Darling, opera seconda di Olivia Wilde, arriva un momento nel quale il Grande Fratello non può più convincerti che 2+2 sia uguale a 5.

ALICE osserva e procede verso un baratro. Mettere in dubbio la propria vita dà le vertigini, continuare nella stessa direzione circolare provoca smarrimento.
Chi è suo marito? Qual è il suo lavoro? Una specie di progetto Manhattan? Chi sono gli altri uomini, quasi dominati da un’entità ignota (L’invasione degli ultracorpi)? Perché le donne sono servizievoli e perennemente sorridenti (La fabbrica delle mogli)?

PRESENTATO fuori concorso alla Mostra di Venezia, Don’t Worry Darling è un film che attinge a numerosi modelli, ricalcandone stili e ambizioni critiche. Nella regia di Olivia Wilde e nella scrittura di Katie Silberman, si racconta di una donna che, in uno scenario distopico, cambia rotta, prende una direzione imprevista, disattende una regola, si ribella all’incubo di un’umanità soggiogata a un dominio totalitario, per quanto attraente possa apparire. Risulta, allora, ancor più paradossale che questa fredda rappresentazione sia organizzata attraverso rigide partiture. Quasi che lo spartito di questo film fosse speculare a quello eseguito nella comunità di Victory.