Tra gli ospiti della 9° edizione del «Ca’Foscari short film festival», spicca la giovane regista indiana Maaria Sayed che affronta, attraverso i due lavori Aabida e Chudala, la complessità della società indiana dove le donne, consapevoli della loro soggettività, cercano di emergere e trovare la propria dimensione tra doveri patriarcali e desideri individuali, tra nuove e vecchie generazioni.
Come nasce l’idea del film «Aabida»?
Ho sentito con le mie orecchie lo scoppio della bomba esplosa il 26 novembre del 2008 a Mumbai nella zona turistica, dove sono presenti gli hotel di lusso. L’attacco è stato perpetrato da un gruppo pachistano e molti ispettori mussulmani, alcuni amici della mia famiglia, da un giorno all’altro hanno visto le loro case ispezionate; è stata una cosa molto triste dopo anni di servizio per il loro paese. Ho iniziato a fare delle ricerche presso la polizia e nelle famiglie colpite dall’attentato con cui ho parlato a lungo e da li decisi di andare oltre l’aspetto politico e sociologico dell’accaduto per far emergere come la donna comune viveva questi fatti. Ad Aabida, protagonista del film, non interessa se il marito fosse coinvolto in questi atti terroristici, ma di sentirsi libera come donna, come individuo. Quando la giornalista arriva nella sua casa Aabida si sente protagonista, c’è finalmente qualcuno che chiede la sua opinione, il suo punto di vista; fin a quel momento era limitata, ristretta dalla figura del marito. La cosa triste è che può finalmente riscoprirsi nel momento in cui il marito è morto.
Hai avuto difficoltà nel girare?
Fin dall’inizio: i permessi dalla polizia, le location. Molte scene, infatti, sono una toccata e fuga altrimenti è molto difficile poter riprendere in quelle zone dette colonie, cioè i quartieri abitati dalla comunità musulmana. È una zona in cui gli insediamenti risalgono all’impero Moghul poi è arrivato l’impero Britannico e infine diversi gruppi di immigrati; nel tempo però questa zona ha perso il suo splendore. Ho dovuto girare con una Mc3, una macchina che non si notasse molto in modo da non avere problemi e soprattutto non avere un effetto artificiale, ma quanto più realistico possibile. Poi non è stato facile trovare persone che aderissero al progetto; ci sono stati casi in cui mi hanno detto che alcune cose erano offensive verso la religione tipo «come si può sentire libera questa donna dopo che è morto il marito?».
La camera nei due corti hanno una posizione molto diversa: nel primo distante nell’altro tutt’uno con la protagonista. Qual è stato il motivo di queste scelte?
Nel primo, Aabida non ha avuto il coraggio o non ha voluto fare un lavoro d’introspezione, non oserebbe essendo una donna di una certa età la cui vita si concentra all’interno della casa, dove gli oggetti diventano la sua compagnia e quando esce la sua routine è sempre la stessa; non esplora nuove possibilità. In Chudala, invece, la giovane protagonista appartiene a un’altra generazione, prova a osare di più, ma soprattutto si parla della sua situazione, della sua sessualità. C’è anche la relazione molto fisica con il padre, un po’ strana, ribadisce con forza la proprietà sulla figlia e sul corpo che assume un ruolo centrale. Quando ritorna dal padre, dopo aver trasformato il suo aspetto, lui non la riconosce perché uno dei simboli della femminilità in questa società sono i capelli lunghi, ma soprattutto perché non ha mai conosciuto sua figlia per quello che è realmente, ha visto solo quello che voleva: una proprietà.
Come sono i rapporti delle donne nella società indiana?
Nel mondo dell’arte si può avere il proprio punto di vista, essere diretti, però la società intorno ti guarda in un’altra maniera, è un po’ complicato. Il dialogo è cominciato, c’è una volontà di parlare delle donne e della loro condizione, ma la strada è ancora lunga, difficile. Da parte dei media c’è questa volontà, però nelle famiglie certi argomenti non sono trattati. I giovani uomini sono circondati in maniera eccessiva dall’amore materno che da adulti li spinge, nel modo in cui sono cresciuti, a essere ultra possessivi con le donne. Che siano fratelli o che siano figli, bisogna cambiare il modo in cui le donne, le madri interagiscono con gli uomini.