Wang Di – la protagonista di Storia della nostra scomparsa, esordio letterario di Jing-Jing Lee (Fazi, pp. 399, euro 17) – partorisce il figlio nato a seguito di uno dei tanti stupri subiti ad opera dei soldati giapponesi, ad agosto. È il mese dei fantasmi, dice a Wang Di una sua amica, a sua volta fantasma, perché uccisa dagli occupanti. Singapore, Seconda guerra mondiale, occupazione giapponese. Terribili nefandezze – «a marzo arrivarono i primi soldati. Giravano delle voci, si diceva andassero di villaggio in villaggio, facendo razzia di tutto» – e il rapimento di giovani donne costrette a vivere in squallidi posti per essere a disposizione degli appetiti sessuali dell’esercito imperiale giapponese: un mondo di fantasmi, donne cui viene affibbiato un nome giapponese, famiglie che vivono quei terribili anni nascondendo ognuna un trauma segreto. Fantasmi che popolano la storia: «imparai a fare la morta, chiudendo gli occhi e restando così immobile che mi sembrava di sprofondare nel pavimento. Di notte, mi pareva di vedere mia madre che girava la testa dall’altra parte per la vergogna».

LA SINGAPOREANA Jing-Jing Lee disegna un quadro solido all’interno del quale si muovono Wang Di, ormai anziana e costretta a salutare il Vecchio, il marito, senza affidargli il suo segreto e senza raccogliere quello dell’uomo cui i giapponesi hanno sterminato la famiglia lasciando vivi lui e un figlio poi scomparso e Kevin un ragazzo di 12 anni ormai quasi cieco (e forse solo un non vedente può riconoscere i fantasmi, sembra suggerire la poetica di Jing-Jing Lee), bullizzato a scuola, iper protetto dalla famiglia ma in possesso del segreto della nonna morente, che confessa a lui, pensando di trovarsi di fronte a suo padre, un altro dei tanti eventi la cui tragica combinazione si conoscerà solo alla fine del volume. Sullo sfondo di queste due trame ambientate in un dopoguerra stanco, impoverito e ancora disumano nel suo procedere, c’è la storia di Wang Di nella «casa bianca e nera», la prigione nella quale lei e altre donne sono rese schiave.

I GIAPPONESI le chiamarono comfort women e finché poterono negarono una connessione diretta tra il loro esercito, i rapimenti e gli stupri. Si calcola che siano state 200mila le donne, soprattutto coreane e cinesi, a finire in questi posti, umiliate e violentate anche 40 volte al giorno. Proprio una donna coreana, nel 1991, ad agosto non a caso, rese nota per la prima volta la terribile storia delle «donne di conforto», aprendo una diatriba con il Giappone che si è apparentemente conclusa solo nel 2015 con un indennizzo di Tokyo a Seul, ma che continua a scavare nelle relazioni tra paesi asiatici.
Jing-Jing Lee racconta la vita di Wang Di da schiava giapponese in modo sublime, schietto e preciso, come sembra il comportamento della protagonista che trova un modo di andare avanti sganciandosi da sé e affidando le umiliazioni a Fujiko, il nome giapponese affibbiatogli dalla sua aguzzina (così come Singapore divenne Syonan-to), Mrs Sato un’algida e severa carceriera.

UNA SEQUENZA UMANA di torturatori, stupratori e disumanità che terminerà solo con la sconfitta giapponese ma che non consentirà a queste donne il ritorno a una vita normale. Il loro status di fantasmi infatti, continuerà ad aleggiare sulla loro esistenza: tacciate di essere traditrici, di «essersela fatta con il nemico», di averci sicuramente guadagnato qualcosa: «Si ricordò di tutto. Di quando i vicini avevano scoperto la verità e avevano preso a trattarla come se fosse stata contagiosa, tirando via i bambini quando le passavano accanto, voltandosi a sputare a terra ogni volta che la incontravano fuori dai giardinetti pubblici».
Wang Di, rientrata in una famiglia che occulta la sua storia senza volerla mai ascoltare, non trova neanche lavoro per la «macchia» che porta addosso: «Aveva fatto il giro delle trattorie a buon mercato che ormai spuntavano ovunque per chiedere se servisse un aiuto nel retrobottega, qualcuno che pulisse la cucina i bagni, qualsiasi cosa. Neppure lì al buio la volevano. E il modo in cui la chiamavano, la frase che sussurravano appena voltava le spalle: “è una donna di conforto”. Come uno schiaffo in faccia; come rinchiuderla in uno sgabuzzino. Certi dicevano che l’aveva fatto per i soldi. Che voleva trovarsi un marito. Che avrebbe fatto la vita facile».

LA DONNA trova infine un uomo, un vedovo, che accetta di sposarla. È il Vecchio, anch’esso un fantasma tracimato dall’occupazione giapponese e devastato dalle perdite. Ed entrambi, appena riemersi dalle loro tragedie personali, rientrando nel mondo «reale», noteranno la stessa cosa: niente sembra essere cambiato, tutto sembra procedere come prima; una terribile sconfitta per chi ha una storia da raccontare e la conferma di essere fantasmi, spogliati ancora una volta del proprio nome: «Non pronunciavano mai il mio nome, non mi chiamavano neanche la figlia della signora Ng, come facevano quando ero piccola. Dopo vari giorni capii. Ormai non ero più Wang Di, almeno non per loro, ormai ero solo una wei an fu, una donna di conforto».

Un libro che procede per confessioni e svelamenti, che gestisce con grande sicurezza lo sviluppo delle sottotrame, che dipinge senza fronzoli una società patriarcale nella quale lo scempio giapponese è solo una delle tante negazioni della donna e che non termina affatto con la Seconda guerra mondiale, ma prosegue e pare non avere fine. Wang Di, non a caso, significa «in attesa di un fratellino», a testimoniare l’antica volontà di avere uomini in famiglia, desiderio di gruppi di cinesi trasferitisi a Singapore, allora sotto il dominio britannico, per sfuggire proprio all’avanzata nipponica.

Ma il volume è anche un modo per interrogarci sui grandi rimossi del Novecento compresi quelli asiatici che a noi occidentali appaiono distanti quando non «minori». Storia della nostra scomparsa, ricorda quella ricerca sulla «distruzione» di cui W. G. Sebald ha esaminato il canone nella Germania post nazista e che in Asia non sembra ancora compiuta. La tragica vicenda delle donne di conforto è infatti uno degli esiti del tennosei fashizumu, il «fascismo del sistema imperiale», come la storiografia giapponese definisce il periodo tra le due guerre mondiali in Giappone.

E NONOSTANTE le scuse e l’indennizzo c’è una storiografia giapponese che ancora nutre dubbi rispetto al fenomeno delle «donne di conforto». Uno dei più importanti storici giapponesi, Ikuhiko Hata, nel 2019 ha pubblicato Comfort women and sex in battle zone: secondo Hata le donne costrette a prostituirsi sarebbero state al massimo 40mila, molte furono «volontarie» e soprattutto si trattava di case gestite da «privati» e dunque non direttamente collegate all’esercito imperiale. Ipotesi smentite da testimonianze e soprattutto dall’ammissione stessa del governo giapponese. Ma anche queste donne ancora in vita e in grado di raccontare, ormai poche e tutte sopra agli 80 anni, sono diventate oggetti di battaglia politica; sempre meno numericamente, in Corea si radunano ancora, accanto a una statua che raffigura una ragazza, simbolo delle «donne di conforto», sistemata proprio di fronte all’ambasciata giapponese a Seul.

Il primo accusatore nei confronti dell’esercito giapponese, Seiji Yoshida (che sarà anche membro del Partito comunista giapponese), nel 1983 scrisse un libro (My war crime) nel quale ammetteva di avere avuto un ruolo nel rapire le donne per i soldati giapponesi. Ma le sue ricostruzioni si sono rivelate poco accurate e questo ha consentito a una certa storiografia giapponese di prova a rimuovere le responsabilità nazionali. Peccato che Yoshida sia stato «smentito» proprio dalle ben più precise ricostruzioni di tante vittime. A queste ultime, infatti, è consegnata anche la paura più grande dopo la sofferenza, simile a quella dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazista: chi mi crederà, chi potrà mai credere che sia davvero successo tutto questo. Si tratta di un tema che Storia della nostra scomparsa, analizza a fondo, consegnando a queste donne quella goccia di candore e di umanità dimenticata sia durante l’occupazione, sia nel dopoguerra.

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Fuga dalla Cina di Tienanmen

Sheng Keyi è diventata ben presto nota in Occidente ma è praticamente sconosciuta in Cina. Il suo libro Fuga di morte (Fazi editore, pp. 430, euro 18.50) ha riscosso notevole successo fuori dalla Cina, in quanto affronta il tema rimosso da Pechino, di quanto accadde nel 1989. Sheng Keyi lo fa però in un modo decisamente originale, ricorrendo a una sorta di ucronia, nella quale il destino cinese appare trasfigurato da eventi che via via si scoprono nel corso del volume. La scelta di muoversi in una sorta di multiverso è felice, sorretta da uno stile minuzioso e attento a ogni particolare.