Ieri la protesta davanti a negozi e fabbriche Venchi organizzata dal sindacato Usb in diverse città, oggi la convocazione dell’azienda da parte del Comune di Fiumicino su richiesta della ministra del Lavoro Nunzia Catalfo. In mezzo il destino di dieci dipendenti, tra cui nove donne. «Sono licenziamenti mascherati da trasferimenti: un modo per aggirare il blocco che il governo ha prorogato fino al 21 marzo», dice al telefono Elena Casagrande, combattiva delegata Usb.

La storia inizia al Terminal 1 dell’aeroporto Leonardo Da Vinci, in un negozio di cioccolata oltre gli scanner che prima del Covid-19 controllavano i passeggeri in partenza e ora restano ciechi e silenziosi. La Venchi ha una storia di 142 anni e una fama mondiale al gusto di gianduiotti, cremini, nougatine e chocaviar. Cioccolatini e gelato hanno generato nel 2019 un fatturato di circa 100 milioni di euro. I punti vendita sono 115 nel mondo, sparsi in stazioni, aeroporti e vie delle principali metropoli di 70 paesi: da Londra a New York, da Berlino a Dubai, fino alle megalopoli asiatiche, Pechino, Macao, Hong Kong e Shangai. Nove solo a Roma e dintorni: uno per ogni terminal del principale aeroporto e gli altri sei in città, tra centri commerciali e centro storico.

La strada per l’aeroporto di Fiumicino Leonardo Da Vinci con il cartello che indica la chiusura del T1 e T2, foto di Costanza Fraia

«Il 3 novembre avevamo un incontro con la Venchi per la conciliazione di una vertenza sui turni – afferma Casagrande – Appena ci siamo collegati hanno detto che la causa decadeva: il negozio avrebbe chiuso e le lavoratrici sarebbero state trasferite». Il giorno successivo scatta la convocazione in aeroporto per la consegna della lettera con la nuova destinazione. Le lavoratrici si mettono in fila ed entrano nell’ufficio, una alla volta. Poi leggono ad alta voce: Torino, Vicenza, Parma, Padova, Venezia, Siena. Hanno tempo fino al 4 gennaio per impacchettare la loro vita e trasferirsi a centinaia di chilometri di distanza, alcune perfino in zona rossa.

Scuotono la testa. Prendono carta e penna e scrivono al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al premier Giuseppe Conte e alla ministra del lavoro Nunzia Catalfo. L’11 novembre protestano con il loro sindacato davanti al parlamento e minacciano di incatenarsi. Non possono accettare che l’azienda dove hanno lavorato per 10, 15 e perfino 20 anni le obblighi a spostarsi dall’altra parte del paese. L’onorevole Stefano Fassina (LeU) presenta a Catalfo un’interrogazione parlamentare che porta all’atteso incontro di oggi.

Pamela Ceccarelli nella sua casa in compagnia del figlio, foto di Costanza Fraia

«Sono senza parole. Ho un contratto part-time: guadagno 1.050 euro al mese, assegni familiari inclusi. Ho appena fatto un mutuo per ristrutturare casa dei miei. Come faccio a pagare anche un affitto?», dice Pamela Ceccarelli. Ha 37 anni e da 16 lavora nei negozi Venchi dell’aeroporto. Mentre parla guarda il figlio che le gioca accanto, ha tre anni. «Trasferimento è uguale a licenziamento», ripete.

La Venchi sostiene di aver atteso l’evolvere della situazione sanitaria ma siccome non vede possibilità di far ripartire a breve il negozio del T1 ha deciso di chiuderlo. «L’azienda ha cercato ogni soluzione possibile per salvaguardare l’occupazione per i dipendenti, non essendo prevista alcuna forma di cassa integrazione per le attività in chiusura di esercizio – dice al manifesto – Si è quindi adoperata per individuare l’esistenza di posizioni “libere” all’interno di altri punti vendita sul territorio nazionale».

Il segnale che indica il drive-in nello scalo Leonardo Da Vinci, foto di Costanza Fraia

Usb, però, non ci sta: «Non è una chiusura d’esercizio, chiude solo un punto vendita su nove. Non sappiamo neanche se in forma momentanea. Venchi potrebbe continuare a usufruire della cassa integrazione in deroga, come per gli altri negozi, ma non ha cercato alcuna soluzione alternativa». Il sindacato fa notare che le lavoratrici al centro del braccio di ferro sono le uniche sindacalizzate e con una vertenza aperta.

«E poi sono quasi tutte donne, proprio mentre si parla tanto di come la crisi abbia effetti pesanti sulla perdita di occupazione femminile», dice Casagrande. I numeri, impietosi, li ha forniti ieri il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo in audizione alle commissioni Bilancio di Camera e Senato: «Nel secondo trimestre 2020 ci sono 470mila lavoratrici in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il tasso di occupazione femminile 15-64 anni si attesta al 48,4%, contro il 66,6% di quello maschile».

Anche per questo le lavoratrici Venchi aspettano dal governo un impegno che dia un segnale, piccolo ma significativo, di sostegno all’occupazione delle donne e contro i possibili tentativi di aggirare il blocco dei licenziamenti.

Alessandra Tragni, foto di Costanza Fraia

«Ho 40 anni, sono entrata in quel negozio 11 anni fa – racconta Alessandra Tragni – Dopo un po’ mi è nata una figlia e ho chiesto il part-time per starle dietro. Poi mia madre si è ammalata gravemente. Adesso devo lavorare e anche prendermi cura di tutte e due. Come faccio ad andare in un’altra città?». E se alla fine la scelta tra trasferimento e perdita del posto, tra lavoro e famiglia fosse obbligata? «Non lo so, ci penso continuamente – continua – Ma ho anche un altro pensiero fisso: mostrare a mia figlia di nove anni che le ingiustizie devi affrontarle a testa alta, qualunque sia l’esito».