«Essendo la ‘vita’ in questa ‘società’, nel migliore dei casi, una noia sconfinata, e non essendo alcun aspetto della ‘società’ pertinente alle donne, non resta alle donne dotate di senso civile, responsabili, e in cerca di eccitazione, che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire la completa automazione ed eliminare il sesso maschile» (Valerie Solanas, SCUM Manifesto)
A febbraio abbiamo pubblicato un articolo sulla misoginia nella musica rock. Misoginia è un termine che deriva dal greco «mìse» (odiare) e «gyne» (donna) e che «indica un sentimento e un conseguente atteggiamento d’odio o avversione nei confronti delle donne – generalmente da parte di uomini, più raramente da parte di altre donne» (Wikipedia). Un misogino è quindi una persona, di solito un uomo, che odia le donne. Una persona che odia gli uomini è invece misandrica, un vocabolo usato raramente, tanto che tutti i correttori automatici sottolineano la parola in rosso e chiedono se intendiamo, invece, misantropia, ossia il «disprezzo e odio verso l’umanità nel suo complesso» (treccani.it).
Invece intendiamo proprio «misandria», vocabolo nato dall’unione delle parole greche «mìse» (odiare) e «anér» (uomo). Pur non negando che sì, ci sono al mondo donne che odiano gli uomini (in generale o in particolare, per svariate ragioni, di solito legittime), come ci sono uomini che odiano gli uomini, i termini «misandria», «misandrica» e simili non sono di uso comune (né in inglese, né in italiano). Nell’Oxford English Corpus (online), per dire, ci sono ventinove esempi della parola «misandrist», mentre «misogynist» appare più di millecinquecento volte; e «misandry» è superata di gran lunga da «misogyny» (sessantotto a più di duemila).
Il termine «misandria» non è però un omologo esatto di «misoginia». Marc Ouellette, nel libro International Encyclopedia of Men and Masculinities (2007), chiarisce la differenza, affermando che «alla misandria manca l’odio sistemico, trans-storico, istituzionalizzato, e regolamentato attraverso le leggi, della misoginia». L’antropologo David D. Gilmore dichiara che la misoginia è un «fenomeno quasi universale», la misandria no. La misandria, afferma, riguarda «non l’odio degli uomini in quanto uomini, ma l’odio del ruolo tradizionale maschile» e della «cultura del machismo». Il sociologo Allan G. Johnson, in The Gender Knot: Unraveling Our Patriarchal Legacy (1997), afferma che le accuse di misandria sono usate per screditare le femministe e per spostare (di nuovo) l’attenzione verso gli uomini, in modo da rafforzare la cultura patriarcale.
Il termine «misandria» viene impiegato negli anni Settanta a proposito di alcune femministe radicali, in particolare Valerie Solanas. Scrittrice, attrice e militante femminista, la Solanas è nota perlopiù per aver scritto lo SCUM Manifesto e per aver sparato nel 1968 ad Andy Warhol (che si salvò in extremis) durante un episodio psicotico. Lo SCUM Manifesto («scum», che in inglese significa «feccia», è ritenuto un acronimo di «Society for Cutting up Men», «società per fare a pezzi gli uomini», ma ciò non è mai stato confermato dall’autrice) esce nel 1968 per Olympic Press. In esso Valerie sostiene che gli uomini sono biologicamente inferiori alle donne e che è necessario sterminarli. Non in senso letterale, però. La stessa Solanas parlando di SCUM afferma: «(La società) è ipotetica (…). È solamente un artificio letterario. Non c’è un’organizzazione chiamata SCUM». È necessario in ogni caso contestualizzare l’odio della Solanas per il sesso maschile: vittima di abusi sessuali da parte del padre per tutta l’infanzia, durante la sua vita viene ignorata o maltrattata da tutti gli uomini che incontra (per approfondire: The Radical Possibilities of Valerie Solanas di Breanne Fahs, 2008).
Da chi vengono utilizzati oggi i termini misandria, misandrica ecc.? Essenzialmente da due tipi di persone: da alcune femministe (in senso umoristico), e dai loro nemici dei movimenti «per i diritti degli uomini» (in senso insultante, ovviamente), che si sentono discriminati in quanto appartenenti al sesso maschile, ad esempio, in caso di divorzio, violenza domestica e stupro, asserendo che (secondo loro) la legge è (nei casi citati) quasi sempre dalla parte della donna.
Nell’agosto del 2014 il magazine online www.slate.com ha pubblicato l’articolo di Amanda Hess The Rise of the Ironic Man-Hater (L’ascesa della «odiatrice d’uomini» ironica). «La misandria è un’accusa che è stata scagliata alle femministe a partire dall’alba del movimento femminista: dando potere alle donne, sostengono gli oppositori, le femministe stanno in realtà opprimendo gli uomini – scrive la Hess. Ora le femministe stanno ironicamente abbracciando l’etichetta di ‘odiatrici di uomini’: la misandrica ironica sorseggia il caffè da una tazza con la scritta Male Tears (lacrime maschili), glassa le sue torte con la frase Kill All Men (uccidi tutti gli uomini), e applica al bavero spille a forma di cuore con la scritta Misandry».
Lo scopo di tutto ciò sta nel mostrare l’assurdità e il ridicolo della visione falsata che certe persone hanno del femminismo. In modo simile alla appropriazione da parte delle riot grrrl di termini offensivi quali «whore» (puttana) e «bitch» (stronza), appropriarsi del termine «misandria» significa rendere inefficace il suo uso come insulto. La cosa che rende il tutto più divertente è che cercando su etsy.com la parola «misandrist» o «male tears» appaiono artefatti di tutti i tipi realizzati con tecniche artigianali storicamente «femminili», quali il ricamo, il cucito, l’uncinetto ecc. Ed è chiaro che accoppiare l’immagine della femminista che vuole uccidere tutti gli uomini con l’immagine iperfemminile e tradizionale della casalinga degli anni Cinquanta che fa lavori all’uncinetto e sforna torte, automaticamente rassicura che il mostro-odia-uomini è una figura mitologia (o almeno relegata ai margini del femminismo radicale).
Trovare «inni misandrici» non è stato facile. E il tono delle canzoni che abbiamo ascoltato è diverso da quello delle canzoni misogine di cui abbiamo parlato nell’articolo precedente. Spesso quando un’artista donna nei suoi testi esprime odio verso gli uomini, è un odio che ha migliaia di anni di oppressione alle spalle, un odio che ha il suono della lotta contro il patriarcato. Come tuona Kathleen Hanna in White Boy: «Mi spiace così tanto se sto creando problemi ad alcuni di voi/ma tutta la vostra cultura del cazzo crea problemi a me».
Prendiamo generi musicali come l’hip hop e l’r&b, che da almeno un paio di decenni dominano le classifiche: la misoginia straripa dai testi e dai video di parecchi rapper uomini. Ma ci sono (e ci sono state) anche rapper donne che hanno risposto con canzoni in cui gli uomini vengono «bastonati» per bene per il loro machismo. Da No Scrubs delle TLC (1999) a Lookin’Ass di Nicki Minaj, passando attraverso numerosi brani della femminista dichiarata Beyoncé (con o senza Destiny’s Child), molte donne dell’hip hop e dell’r&b non sono state al «loro posto». Nonostante l’evidente disparità numerica tra brani misogini e brani misandrici in questo genere musicale, molto spesso una canzone percepita come misandrica dagli uomini, prendiamo la minacciosa Lookin Ass, provoca una canzone di risposta, in questo caso Lookin Ass Bitches di Cassidy.
La canzone di risposta, che ha una lunga tradizione nella musica hip hop e non solo, in casi come questo suona ridondante e ipocrita. Parole simili a «una scopata nei bagni del club in cambio di una bottiglia, troie» sono la norma in migliaia di canzoni hip hop. Come ha detto qualcuno, Cassidy è quel bambino di otto anni che corre piangendo dalla mammina perché la bambina che ha preso in giro per tutto l’anno gli ha finalmente detto «stai zitto, stupido».
Non che le artiste donne non scrivano testi di livore e vendetta verso uomini in particolare, soprattutto se questi uomini l’odio se lo sono meritato, trattandole male, tradendole, abusandone sessualmente, fisicamente o psicologicamente. Breakin’ Dishes di Rihanna (da Good Girl Gone Bad, Def Jam, 2007) è una revenge song, una canzone di vendetta: qualcosa fa sospettare alla cantante barbadiana che il suo uomo la stia tradendo, e nel dubbio sta già facendo a pezzi le stoviglie. Mentre aspetta che il malcapitato ritorni a casa, ammazza il tempo arrostendo marshmallow sul falò degli abiti del tipo. La cantante pop-country Carrie Underwood racconta un’altra storia di vendetta nei confronti di un fidanzato potenzialmente fedifrago nella hit Before He Cheats (dall’album Some Hearts, 2005). La vittima della ritorsione preventiva è in questo caso il furgone del tipo, sul quale Carrie si sfoga con atti vari di vandalismo. In ambito pop c’è I Hate Boys (da Bionic, 2010) di Christina Aguilera. Si dice che tra i temi affrontati dall’album ci sia il femminismo, ma tra una My Girls (prodotta da Le Tigre) la cui versione di «girl power» è indossare Louboutin e tenere una copia di Cosmo sul cruscotto, e una I Hate Boys che testualmente suona come una filastrocca da bambine delle elementari («Odio i ragazzi, ma i ragazzi mi amano/ credo facciano schifo e le mie amiche sono d’accordo»), cosa che, considerando che la Aguilera nel 2010 aveva trent’anni tondi, ci fa provare un po’ di imbarazzo per lei, il femminismo dove sta?
Avvertenza: nessun uomo è stato maltrattato durante la scrittura di questo articolo.

FUORI I NOMI

– White Boy, Bikini Kill (da Yeah Yeah Yeah Yeah, Kill Rock Stars, 1993)
Non è difficile trovare nella discografia delle Bikini Kill una canzone contro gli uomini. Ma White Boy è tra le più esplicite: un’invettiva, condensata in meno di due minuti e mezzo di feroce punk rock, contro il maschilismo (purtroppo presente anche nella scena punk, come dimostra la conversazione che apre il brano, tra Kathleen Hanna e un ragazzo del pubblico, che, interrogato dalla Hanna sugli abusi sessuali subiti dalle ragazze risponde: «Non penso sia un problema, perché gran parte delle ragazze se la vanno a cercare»). La replica delle Bikini Kill è spietata: da versi come «è difficile parlare con il tuo cazzo nella mia bocca/proverò a urlare di dolore in modo un po’ più carino la prossima volta» al ritornello, che esprime nel modo dovuto tutta l’esasperazione provata dalle donne nel confronti di una società sessista e razzista: «Ragazzo bianco/non ridere/non piangere/muori e basta». Nel secondo verso Hanna ingegnosamente anticipa (e risponde alle inevitabili accuse di misandria che arriveranno alla band a causa di testi come questo: «Mi spiace così tanto se mi sto alienando alcuni di voi/ma tutta la vostra cultura del cazzo aliena me». È chiaro che il «ragazzo bianco» a cui questo inno femminista augura la morte è la società patriarcale, ma il messaggio di «girl love» (amore per le donne) della band sarà da molti interpretato ingiustamente come «man hate» (odio per gli uomini).
– A Real Man, Sleater-Kinney (da Sleater-Kinney, Chainsaw Records, 1995) Formate nel 1994 da Corin Tucker (che veniva dalla band riot grrrl Heavens to Betsy) e Carrie Brownstein, alle quali in seguito si unirà Janet Weiss, anche alle Sleater-Kinney non mancano canzoni in cui criticano gli uomini e il sessismo. A Real Man è una tagliente critica agli uomini in cui Corin dichiara di non voler entrare nel loro club e di non voler far sesso con loro. Ancora più esplicita è Terrorist delle Heavens To Betsy (Calculated, Krs, 1994): «Mi segui per la fottuta strada/mi fai sentire come un pezzo di carne». Ma Corin non ci sta a fare la vittima: «Ti ucciderò, ti taglierò a pezzi, ti caverò via gli occhi/ti ucciderò/non sono la tua preda, ti farò morire» ringhia rabbiosa. I dettagli saranno un po’ raccapriccianti, ma, come dice Corin, «ne ho abbastanza» di non essere rispettata.
– Dead Men Don’t Rape, 7 Year Bitch (da There’s a Dyke in the Pit, Outpunk, 1992)
Un’altra band che non scherza sono le 7 Year Bitch. Il messaggio di questo brano (che si trova sia nella compilation There’s a Dyke sia nel loro primo album Sick ‘Em) è condensato nel verso: «Non provo pietà, non una singola lacrima/per coloro che traggono gioia dalla paura di una donna/ preferisco prendere una pistola e farti saltare le cervella/allora imparerai di prima mano/che gli uomini morti non stuprano». L’anno successivo la band subisce un duro colpo. La loro amica Mia Zapata, leader del gruppo punk The Gits, viene violentata, picchiata e strangolata mentre sta tornando a casa a piedi di notte. Il secondo album delle 7 Year Bitch, ¡Viva Zapata! (C/Z Records, 1994) è un tributo a Mia e a Stefanie Sargent, chitarrista della band morta nel 1992.
– Just a Girl, No Doubt (da Tragic Kingdo, Interscope Records, 1995)
Un’altra che ne ha avuto abbastanza è Gwen Stefani dei No Doubt. La loro hit Just a Girl nasce dall’esasperazione della Stefani nei confronti degli stereotipi femminili («Oh sono solo una ragazza, tutta carina e minuta»), del presunto bisogno di protezione («questo mondo mi forza a tenerti per mano») e della paura causata dai pericoli in cui incorre una donna uscendo di casa («nel momento in cui metto il piede fuori di casa/ci sono così tanti motivi per correre a nascondermi»). Gwen spiega in un’intervista di aver scritto il testo perché «mio papà si arrabbiò con me perché andavo a casa di Tony (Kanal, bassista dei No Doubt e fidanzato di Gwen all’epoca, ndr) e tornavo a casa tardi la sera in auto. Voglio dire, dai, avevo quasi 30 anni!». Il testo sarà meno duro di quelli scritti dalla Hanna o dalla Tucker, ma il messaggio è esattamente lo stesso. «Mi sto spiegando bene?». Sì, Gwen, perfettamente.
– Lookin Ass, Nicki Minaj (da Young Money: Rise of an Empire, Young Money Entertainment, 2014)
Nicki Minaj è un’artista abituata alle controversie, e il singolo Lookin Ass di polemiche ne ha scatenate parecchie: sull’uso discutibile del termine «nigga», sulla scena del video in cui la Minaj impugna due mitragliatrici, e persino sull’abbigliamento succinto della rapper in un video in cui critica proprio lo «sguardo maschile». Ma Nicki è una donna intelligente e una femminista, anche se a modo suo. Cresciuta con un padre violento e una madre debole, è per questo, dice, fissata da sempre con l’empowerment femminile. Lookin Ass colpisce il bersaglio del maschilismo e dello «sguardo maschile» con una precisione da professionista. Urbandictionary.com ci spiega che «lookin ass nigga» (letteralmente: «sembri un coglione, negro») è una locuzione dello slang afroamericano che viene aggiunta alla fine di una frase nella quale si attacca verbalmente l’interlocutore. Quasi sempre si tratta di insulti in risposta ad insulti ricevuti. In Lookin Ass la Minaj, che usa lo stesso linguaggio aggressivo di quelli che sta accusando, è la vincitrice della discussione, quella che ha l’ultima parola. La lista degli insulti rivolti nel testo agli uomini è lunghissima: «Smettetela di guardare il mio culo», «non riesci a ottenere un lavoro, quindi stai tramando una rapina», «(non hai) nessun cazzo nei calzoni», e persino un criticato (dal blog femminista Jezebel, e non senza ragione) «vi sto violentando, negri». Il video è altrettanto efficace: la protagonista è vestita nel suo modo preferito (poco) e gli uomini sono ridotti a raccapriccianti e maliziosi bulbi oculari nelle cui pupille si riflette il corpo della rapper. Nell’epica scena finale Nicki impugna le mitragliatrici e off screen sentiamo degli spari: ha ucciso, metaforicamente, lo «sguardo maschile», e di conseguenza gli spettatori che, guardando il video, la riducono a mero oggetto del desiderio. La Minaj ha affermato di aver scritto la canzone per dare potere alle donne perché «ci sono troppe canzoni che le attaccano».
– You Oughta Know, Alanis Morissette (da Jagged Little Pill, Maverick Records, 1995)
Alanis era una dolce ragazza conosciuta come la «Debbie Gibson del Canada», con due album di bubblegum pop all’attivo. Poi si trasferisce a Los Angeles, impara a suonare la chitarra, firma per la Maverick, e pubblica il suo terzo album, «Jagged Little Pill». Il singolo You Oughta Know diventa una hit mondiale in un periodo in cui la «rabbia femminile» è uno dei trend della musica rock. E Alanis in questo brano è più che arrabbiata, è incazzata nera. La canzone è un grande «vaffanculo» rivolto ad un ex-fidanzato, in cui la Morissette racconta di tutte le promesse che il bastardo le aveva fatto («mi avevi detto che mi avresti stretta a te fino alla tua morte») appena prima di lasciarla per un’altra. Certo è solo lo sfogo di una persona che è stata mollata, ma l’ultimo verso deve aver creato un po’ di ansia al destinatario del messaggio: «E non svanirò/appena chiudi gli occhi, e lo sai/e ogni volta che graffio la schiena di qualcun altro/spero che tu lo senta».
– Kill Yr Boyfriend, Bis (da Transmissions on the Teen-C Tip!, Acuarela Records, 1995)
È difficile immaginare che Manda Rin, l’adorabile cantante dei Bis, possa uccidere qualcuno, e infatti il testo di Kill Yr Boyfriend non è autobiografico, ma un omaggio al fumetto Kill Your Boyfriend (Grant Morrison/Philip Bond/D’Israeli) uscito per Vertigo nel 1995. La trama è semplice: una studentessa borghese dalla vita noiosa e soffocante incontra uno strano ragazzo che le offre una via di fuga: la convince ad uccidere il suo fidanzato e scappare con lui. Segue una serie di avventure violente e edonistiche attraverso l’Inghilterra à la True Romance/Natural Born Killers. Il fumetto è dark ma divertente, e la canzone ha più o meno lo stesso tono. Manda Rin implora la fidanzata di un ragazzo che è un «maiale senza cuore», che si arrabbia facilmente, che a letto è una merda, e che la picchia sempre, di vendicarsi uccidendolo («Prendi la pistola e uccidi il tuo fidanzato»).
– Gimme Brains, Bratmobile (da Ladies, Women and Girls, Lookou, 2000) In Gimme Brains Allison Wolfe, la vocalist delle Bratmobile, sembra rivolgersi rabbiosa al suo ex ragazzo e allo stesso tempo agli uomini in generale. La trama è un po’ surreale, con accenti horror ma anche, come sempre nel caso delle Bratmobile, una sana dose di ironia. Il messaggio è chiaro e tondo dalle prime righe: «Voglio che tu te ne vada/voglio che tu sappia che ti odio così tanto/e tutti i ragazzi del cazzo nelle band del cazzo/state zitti e uscite dalla mia auto». A un certo punto la cosa diventa raccapricciante: «Dammi cervella per colazione baby/e dammene ancora per pranzo/buttami un osso per cena yeah yeah». E se il messaggio non fosse abbastanza chiaro: «Un ragazzo è buono a nulla/non ti può dare niente/sono stufa del niente».
– Caught Out There, Kelis (da Kaleidoscope, Virgin, 1999)
Il brano di Kelis inizia con una dedica: «Questa canzone è per tutte le donne là fuori/alle quali i loro uomini hanno mentito/e so che hanno mentito a tutte voi/mille volte». Poi racconta di come ha scoperto che il suo uomo l’ha tradita: «Ho trovato il suo cappotto rosso e sei stato beccato». La collera esplode nel ritornello catartico, in cui Kelis urla «ti odio così tanto in questo momento», mentre, nel video, distrugge il loro appartamento. Stufa di essere presa in giro, anche Kelis, come la Underwood di Before He Cheats, decide di sfogarsi sul di lui veicolo: «Darò alle fiamme il tuo furgone/e lo guarderò mentre salterà in aria». Anni dopo si saprà che l’ex marito di Kelis (Nas) la tradiva per davvero, quindi la sua furia è reale e non una messa in scena.
– You Don’t Own Me, Lesley Gore (da Sings of Mixed-Up Hearts, Mercury, 1963)
Terminiamo la nostra lista con il brano dal testo forse più clemente, ma che nel 1963 deve essere stato uno schiaffo per molti individui di sesso maschile: You Don’t Own Me, un brano proto femminista e un classico della musica pop che ebbe un successo straordinario. Lesley Gore, all’epoca diciassettenne, nella canzone dichiara senza mezzi termini che lei non è di proprietà di nessuno: «Tu non mi possiedi/non sono uno dei tuoi tanti giocattoli/tu non mi possiedi/non dirmi che non posso uscire con altri ragazzi/e non dirmi cosa fare/non dirmi cosa dire/e per favore, quando esco con te/non mettermi in mostra perché/tu non mi possiedi». E se non si fosse capito «sono libera e amo essere libera». Il brano, dice Wikipedia, divenne «un’inspirazione per le giovani donne» ed ebbe un ruolo importante nell’ascesa della femminismo della seconda ondata. Purtroppo, più di cinquant’anni dopo, il suo testo è ancora rilevante, come ha affermato Lesley stessa nel 2012 in un video toccante che va assolutamente visto (cercate su YouTube AdYourVoice2012 – You Don’t Own Me PSA – Official). Lesley è morta di cancro ai polmoni nel febbraio di quest’anno, a sessantotto anni.