Per interpretarla in molte si sarebbero messe in fila, perché fra le nuove o anche affermate popstar del secondo millennio – da Rihanna a Doja Cat arrivando a Ariana Grande – Donna Summer è indiscutibilmente non solo icona di genere, ma soprattutto un riferimento per stile e vocalità. Così i famigliari della cantante morta il 17 maggio di dieci anni fa – hanno pensato che realizzare un biopic su di lei sarebbe stato troppo scontato e a rischio di (imbarazzanti) confronti. Meglio un documentario, una celebrazione filologicamente più corretta. Quello attualmente in fase di realizzazione racconterà la parabola umana e artistica di LaDonna Adrian Gaines, vero nome di Donna Summer. Di concerto con gli eredi dell’artista, la Polygram Entertainment, il braccio cinematografico e televisivo di Universal Music Group, ne ha affidato la realizzazione al 59enne regista afroamericano Roger Ross Williams, vincitore di un Oscar nel 2010 con il cortometraggio Music by Prudence, sulla cantante dello Zimbabwe Prudence Mabhenale. Ad affiancare il regista, la terza figlia della cantante, Brooklyn, che nasceva proprio 40 anni fa quando Donna aveva appena realizzato l’album che portava il suo nome prodotto da Quincy Jones. «Era importante per me parlare non solo dell’eredità artistica di mia madre, ma anche della sua vita. Volevo sottolineare la complessità del suo talento, che va oltre la disco music», ha detto.

IL MITO RAFFORZATO
Dieci anni dalla morte che non hanno scalfito, semmai rafforzato il suo mito grazie anche al meticoloso lavoro della Crimson Production, etichetta degli eredi che gestisce tutto il catalogo della star e che ha pubblicato nel corso delle ultime stagioni cofanetti, versioni rimasterizzate e perfino una rielaborazione del celebre «black album» di Donna, I’m a Rainbow, uscito proprio a ridosso dello scorso natale. Giornalisti e appassionati le hanno dedicato decine di biografie (che si aggiungono all’autobiogafia scritta nel 2001 dalla cantante dal titolo Ordinary Girl) e tra il 2017 e il 2018 un musical sulla sua vita, realizzato con il permesso del marito Bruce Sudano, co-autore di molte delle sue hit, è stato in scena a San Diego e a Broadway e ancora oggi gira molte città degli Stati Uniti. Nel primo allestimento nei panni di Donna c’era Ariana DeBose, fresca di Premio Oscar in West Side Story.
Il ricordo vivido dell’artista bostoniana è legato soprattutto al quinquennio «disco» dal 1975 al 1980. Un genere che non era solo nei 4/4 della batteria, ma nello stile, nella moda: un modello di vita da seguire. Donna Summer dagli orgasmi multipli di Love to Love You Baby che la incoronò regina incontrastata del genere dal 1975 fino al tramonto della «febbre del sabato sera», fece molto di più. Seppe mutar pelle e mantenere anche negli Ottanta un ruolo di assoluta preminenza nel campo della pop music, dimostrando da The Wanderer (1980) – l’ultimo album insieme a Giorgio Moroder e Pete Bellotte – a Mistaken Identity (1991), di sapersi muovere fra generi, produttori e musicisti risultando sempre, anche nei progetti non pienamente riusciti, credibile.
In un’intervista concessa nel 2013 a questo giornale, Moroder raccontava il suo incontro con Donna: «Il successo non è arrivato subito, i primi singoli con lei (Hostage, Lady of the Night, ndr) avevano avuto un buon riscontro, ma è con Love to Love You Baby che abbiamo inventato il suono giusto, l’idea di tenere la batteria fuori e in bella evidenza, con il basso a diventare strumento principe». Il capolavoro con Moroder è I Feel Love (1977) che mette in chiaro – se ancora ce ne fosse stato bisogno – come la disco e Moroder guardavano molto oltre, il «futuro della musica» come suggerì Brian Eno a David Bowie.
I Feel Love era il momento «futurista», il sintetizzatore la sua incarnazione, in un album, I Remember Yesterday, dove la disco veniva declinata in più stili. «Non era semplice lavorare con i primi synth – sottolinea Moroder – perché non era possibile, come oggi, avere loop e basi pronte. Ogni strumento aveva un trigger, un clic che faceva muovere la macchina».
Quando Donna irrompe sulla scena, la disco era uno stile, un modello di vita, una musica. Ma mancava un volto, un personaggio e una voce carismatica per cullarsi su quelle ondeggianti canzoni in 4/4. Lei è la definitiva consacrazione del genere e la dimostrazione che la disco non si limitava a sfornare singoli scala classifiche ma aveva un potenziale enorme negli album. Perfino doppi come quelli che realizza insieme a Moroder e Bellotte, paroliere inglese, e che le schiudono le porte del mercato statunitense: Once Upon a Time nel 1977 ma soprattutto il successivo Live and More uscito l’anno dopo che contiene l’azzeccata cover di Mac Arthur Park di Jimmy Webb, cantata anni prima di Richard Harris. Il country melanconico dell’originale si trasforma in un tripudio di synth e tastiere con la voce di Donna che si dispiega per la prima volta a tutto volume. Donna è anche autrice, di liriche e musiche come dimostra in Bad Girls (1979), il successivo doppio (e suo più grande hit mondiale) dove racconta le vite da marciapiede delle professioniste del sesso e si muove fra ballate rock, electro suite, soul e funk. «Roba calda io ho quello che vuoi e tu hai soldi nella tasca», canta in Hot Stuff, celebre ibrido disco rock con l’assolo di Jeff Baxter dei Doobie Brothers a impreziosire il capostipite del filone disco rock. Nello stesso anno un duello all’ultimo acuto tra dive, con Barbra Streisand: No More Tears, scritta dall’amico Paul Jabara, autore due anni prima di un’altra hit, Last Dance, che le valse anche un Oscar per il poco memorabile Thank God It’s Friday, unico film con la cantante di Boston protagonista.

SODALIZIO INTERROTTO
A interrompere il sodalizio con Moroder ci pensa David Geffen, che l’aveva l’anno prima messa sotto contratto dopo che la cantante aveva abbandonato la Casablanca e portato in tribunale il presidente, Neil Bogart. Insoddisfatto dall’esito commerciale di The Wanderer (1980), il tycoon prima le boccia il doppio I’m a Rainbow e poi la spedisce in sala con Quincy Jones. Q-man non si prende molto con l’ex disco diva, ma l’eponimo Donna (1982) suona alla grande e nell’epica State of Independence di Anderson e Vangelis le mette in piedi un coro di all-star che comprende Michael Jackson, Stevie Wonder e Lionel Richie.
Per la cronaca, il disco contiene anche l’unico «abboccamento» con il jazz della cantante, una rielaborazione di Lush Life – classico del 1933 di Billy Strayhorn – dove Donna dimostra di sapersi muovere con assoluta padronanza. Donna resiste al tramonto della disco e nel 1983 con Michael Omartian in She Works Hard for the Money racconta lo sfruttamento di una matura cameriera che lavora «duramente per il denaro». Another Place and Time (1988), è poco più di un esercizio di stile su un pugno di canzoni affidate e prodotte dall’allora in auge trio inglese Stock Aitken & Waterman, album dall’ottimo impatto commerciale che la riporta per l’ultima volta ai vertici delle classifiche. Mistaken Identity (1991), con lei bionda platino in copertina a parlare di scontri razziali è il fiasco che la tiene lontana dalle sale di registrazione, se non con singoli e una continua emissione di antologie, ma non dai palcoscenici, per 17 anni. Nel 2008 con la Burgundy, distaccamento Sony, ritorna con Crayons circondata dai produttori più à la page. Sarà il suo ultimo lavoro, quattro anni dopo un cancro ai polmoni – che Donna pensa di aver contratto nel 2001 a New York durante un suo soggiorno nella grande mela nei giorni dell’11 settembre – se la porterà via.