Franca Rame si è spenta ieri a Milano, a 84 anni, dopo una malattia che l’aveva colpita lo scorso anno. Era una attrice formidabile, una donna politica intraprendente, una presenza generosa e instancabile della cultura italiana. Con Dario Fo ha costituito per quasi sessant’anni la coppia più irriverente, impegnata, coraggiosa, anticonformista, acclamata e sulfurea della scena italiana. E non solo di quella teatrale. Va anche a lei una parte di quel premio Nobel per la letteratura che lui ha ricevuto a Stoccolma nel 1997 (e insieme lo ritirarono per distribuirlo). Franca per altro era figlia d’arte: suo padre era un attore, e anche sua madre (dopo un periodo di insegnamento) calcava le scene. Fu quasi naturale che in quella compagnia familiare “all’antica italiana” lei abbia cominciato ancora in fasce ad andare in palcoscenico. Senza sapere che dopo il varietà in cui sarebbe eccelsa dopo la guerra, avrebbe conquistato con Fo le platee del grande intrattenimento come il Sistina, e poi la tv da cui sarebbero stati espulsi, censurati per una Canzonissima sopra le righe tracciate dalla Dc.

E che dopo il ’68 avrebbero abbandonato i teatri tradizionali, prima con Nuova Scena e poi con La Comune, per inventare un teatro diverso e popolare, che passava dalle Case del popolo alle Facoltà occupate, dai tendoni ai cinemoni sdirupati della periferia alla “occupata” Palazzina Liberty. Con un teatro che era immediatamente politico oltre che poetico, e irresistibilmente divertente quanto pericolosamente caustico. Ingombranti, e quindi a prezzo dell’ostilità e dell’aggressione, anche fisica, come toccò subire a lei, che da allora si è impegnata con voce tonante nella battaglia delle donne, come era stata in prima linea in quella contro le carceri, dentro le quali fu infaticabile animatrice del Soccorso rosso.

Poi li ha riaccolti la televisione pubblica, e la loro maturità l’hanno dedicata alla riscrittura dei loro testi e a togliersi ogni possibile curiosità artistica e conoscitiva. Lui rimettendo in ordine la sua produzione pittorica, lei affacciandosi nella politica “ufficiale”: nel 2006 accettò la candidatura al Senato offertale da Di Pietro per l’Italia dei valori, e si affacciò trionfalmente a palazzo Madama come fosse la ribalta della società. Non si è risparmiata, ma non ha resistito più di due anni, poi si è dimessa. Aveva sempre molte richieste (di giovani, di studenti o di ammiratori) da evadere. Tutto quello che riguardava la loro storia e la loro esperienza, veniva girato a lei, che ancora manteneva, insieme a una bellezza inalterata e splendente, una notevole capacità gestionale e operativa del loro comune bagaglio artistico. Fino alla malattia di un anno fa. E alla morte di ieri, che lascia solo Dario,il figlio Jacopo, e un pubblico sempre numeroso.
E’ stata una donna forte, Franca, della nostra scena culturale e politica, un riferimento per infinite esperienze diverse, dalla militanza al femminismo. Una donna dura e caparbia, capace di spuntarla sempre nei confronti e nelle apparizioni pubbliche.

La sua origine teatrale (la sua famiglia affermava di discendere da una schiatta di comici del seicento) l’aveva favorita di questo dono naturale. E poi c’era la bellezza, una vera pin up, con cui nei primi anni cinquanta debuttò nella rivista, suo primo successo in Ghe pensi mi, compagnia di Tino Scotti, autore e regista Marcello Marchesi ancora lontano dalla terza età, che la dirigerà anche nel film che la rivela sullo schermo, Lo sai che i papaveri, del 1952. Una citazione sanremese certo, ma che spiega anche come giusto dieci anni dopo (essendo stata la soubrette seduttiva delle Sorelle Nava, e aver incontrato quell’attore magnetico e strampalato che era Fo, sposato nel ’54 in Sant’Ambrogio, e subito divenutane protagonista e musa ispiratrice delle commedie irriverenti e irresistibili, che navigavano per i grandi teatri musicali) insieme a lui si vide affidata la conduzione dell’ara massima della Rai tv: Canzonissima. In quell’Italia ancora bigotta per quanto curiosa, che metteva i calzerotti opachi alle gambe delle Kessler, esplosero i loro dialoghi birichini, vagamente iconoclasti e soprattutto ad ampio raggio contro i politici e le marachelle del potere. E’ vero che furono loro ad andarsene, ma perché stufi di subire censure millimetriche su ogni testo che proponevano.
Tornarono sui grandi palcoscenici, con quelle surreali commedie dai titoli strampalati: Isabella tre caravelle e un cacciaballe, Settimo, ruba un po’ meno, La signora è da buttare. Grandi successi nei teatri più scanzonati, anche se poi i riferimenti erano alle traversie di ogni intellettuale col potere, al nuovo volto dei peccati contro i comandamenti, e la Signora da eliminare era l’America della Nato protettrice d’Italia.

La forza politica del loro teatro trovò nel ’68 il detonatore ideale: via dalle sale tradizionali, per identificare un pubblico e un genere nuovo (e un nuovo modo organizzativo del teatro), immediatamente politico, pur facendo tesoro della sapienza dei linguaggi di cui Franca e Dario disponevano: la comicità della commedia dell’arte e la padronanza dei tempi, la cultura popolare con le sue contraddittorie contaminazioni religiose e le arti visive in cui lui eccelleva. E una mancanza totale di conformismo o «rispetto» verso i poteri che stangavano gli operai, i servizi che organizzavano stragi, l’informazione corrotta e di loggia che copriva gli uni e gli altri. Tempi eroici, che resero militanza la presenza ai loro spettacoli, e comunicazione direttamente politica la voce del palcoscenico. E se Dario è stato sempre la mente «colta» che scriveva e citava, Franca era quella che sporgendosi fuori del proscenio lo «spiegava», con non minore sapienza (dopo aver curato, prima della rappresentazione, tutti i lati organizzativi, degli spettacoli e delle persone, dell’attrezzeria e dei servizi d’ordine). Basta scorrere i titoli con la memoria per divertirsi con un perdurante brivido: Morte accidentale di un anarchico, Il Fanfani rapito, Non si paga…

Poi la stagione di Franca Rame «in solitaria», almeno sulla scena: l’impegno femminista, il successo di Tutta casa letto e chiesa, l’orrore dello stupro su un furgone da parte di un gruppo di fascisti. Dopo lo shock, la forza e la voglia di raccontarlo, perfino in un monologo che andò, grazie a Celentano, anche in televisione. Dove nel frattempo erano tornati, con i loro titoli storici e le conferenze spettacolo. Senza sottrarsi mai, la Franca, a quelli che riteneva i propri «doveri», anche dopo il Nobel conquistato da Fo e il successo ormai internazionale dei loro testi. Fino alla curiosità della politica istituzionale, per quanto interrotta a metà. Lei sempre bella e piena di antenne, sfidava l’età ragionando, spiegando e discutendo senza perdere un colpo. Solo la malattia è riuscita a farla uscire di scena.