«Diventare un neo-Michael Jackson. Questo è quello che voglio. Non so se oggi è più possibile raggiungere una sfera così immensa. Ma è quello che voglio….Il potere è ciò che ti permette di fare quello che vuoi. Se Will Smith decide che vuole interpretare Hitler, si fa quel film. Voglio fare un film nazista. Voglio rappare insieme a Jay-Z e Eminem. Cerco il potere». Così parlava Donald Glover/Childish Gambino in una delle rare interviste che ha mai concesso (al Village Voice, nel 2011). Abilissimo surfista tra i vertici della tv del cinema, della musica e della rete, più che una versione solare e aggiornata al terzo millennio di Michael Jackson, Donald Glover ricorda un natural born Zelig, uno shapeshifter supremo capace di modulare il suo personaggio in una gamma svariatissima di linguaggi e di tonalità – dalla dolcezza di un nerd da sitcom di prima serata e dei Muppet, all’aggressività del gangsta rap; dalle braccia di Rihanna in un film di un’ora (Guava Island) girato in segreto a Cuba per Amazon (che sembra un omaggio al concetto di Thriller) a Star Wars.

AUTORE/ATTORE di se stesso, Glover – che non è il figlio di Danny Glover- ha fatto di quest’inafferrabilità il suo personaggio. In un’opera in cui coesistono senza urtarsi i videomusicali e i concerti, il primo lavoro in tv, come autore per la serie 30 Rock (dove scrisse i dialoghi migliori del personaggio di Tracy Jordan interpretato da Tracy Morgan ma si identificava con il timido assistente bianco Kenneth), il ruolo del ragazzino asmatico di Community, il tour I Am Donald (923 città in 33 gorni), fino al sequel di Magic Mike e alla voce del leone Simba nel recente Il re leone. Nato in una famiglia di testimoni di Geova, a Stone Mountain, un sobborgo di Atlanta, da bambino Glover non poteva guardare la televisione ma si addormentava ascoltando di nascosto l’audio degli episodi di The Simpson, ed è cresciuto con una serie di fratelli «a rotazione», i bimbi che i suoi genitori prendevano regolarmente in affidamento.

DA LÌ, ha detto, è nato il suo desiderio di essere al centro dell’attenzione: «Ero il tipo di bambino che veniva sempre biasimato per cose di cui non avevo colpa. Quindi volevo che tutto filasse liscio. Essendo cresciuto nel Sud, alla gente non piacevo perché ero nero. Quindi ho assunto questo punto di vista: sarò così me stesso e così amabile che farò cambiare idea a tutti. Adesso so che è impossibile. Ma dovevo provarci». La migliore incarnazione dell’approccio complesso e obliquo, non frontale di Glover – che si parli di musica, cinema, politica (era un supporter dell’ex candidato democratico alla presidenza Andrew Young) o di razza, rimane forse la sua bella serie tv Atlanta. Non è casuale, infatti, la scelta off center della capitale della Georgia – famoso teatro della guerra civile, la cui caduta in mano nordista segnò la svolta che avrebbe portato alla vittoria di Lincoln; sede di Cnn, della CocaCola, oltre che un noto trampolino per molti giovani amanti dell’hip hop.

LONTANA dai fasti newyorkesi e dagli intrighi shakespeariani di Empire la scena musicale di Atlanta è immersa nell’aria dolce del sud e nella nuvola di marijuana che aleggia sui protagonisti, che foraggiano la loro arte tra il banco dei pegni, il portafoglio delle fidanzate e la fornitura di uno spacciatore mezzo messicano annidato in una roulotte nella foresta. Sitcom d’ambiente personaggi, umori, pause tirate fino al surreale, scarti improvvisi, canzoni usate come controcampo, la creazione di Glover lavora su variazioni che vanno dalla laboriosa gag su come estrarre la pipì dai pannolini di una neonata per evitare che l’analisi della tua urina riveli il joint della sera prima, al dibattito sulla coolness di Steve McQueen rispetto a quella di Whit Chamberlain, fino a sfiorare quasi la tragica, profonda, elegia di Te- Nehisi Coates.
Autore di parecchi episodi della serie (altri sono firmati da suo fratello Stephen; mentre alla regia è spesso Hiro Murai, regista dei video musicali di Childish Gambino), Glover, è anche uno dei protagonisti, Earn, compagno inaffidabile e squattrinato di Van, con cui ha anche una bambina piccola, e manager improvvisato di suo cugino, Alfred, ovvero il rapper Paper Boi (BrianTyree Henry) diventato improvvisamente famoso quando la sua canzone (Paper Boi, ovvio) viene data in radio mentre la sua foto passa in tv dopo che lui e Earl vengono coinvolti in una sparatoria.