A undici anni dal suo debutto e a cinque dalla sua ultima ripresa, il Don Giovanni con la regia di Robert Carsen continua a essere uno spettacolo potentissimo, oltre che un vero e proprio spartiacque nella storia, non solo scaligera, degli allestimenti della quartultima opera di Mozart. A un primo livello Carsen offre una lettura rigorosa del libretto di Lorenzo Da Ponte, nel cui titolo, Il dissoluto punito sia Il Don Giovanni, il tipo precede e sovrasta l’individuo, la categoria dell’anima il personaggio storico che ne è incarnazione ed esempio, presentandoci palesemente l’opera, come accadeva spesso nel Settecento, come exemplum, ovvero paradigma morale: il caos emotivo e la disgregazione sociale generati dall’eros divorante e incontrollato del libertino vengono neutralizzati attraverso la punizione più drastica e definitiva, la morte, che ha il compito di ripristinare l’ordine.

SPROFONDATO Don Giovanni, tutti gli altri personaggi, giustamente «vendicati dal cielo», tornano alle loro vite: Donna Anna e Don Ottavio al loro matrimonio imminente, Masetto e Zerlina a casa per cena, Leporello all’osteria, Donna Elvira in un «ritiro». A un secondo livello Carsen svela la convenzionalità dell’exemplum, l’artificiosità della morale. A partire dall’ouverture, durante la quale Don Giovanni strappa il sipario (finto) per svelare un enorme specchio che riflette la campana del teatro, tutto l’allestimento è costruito su un gioco di rispecchiamento tra il palco e la platea e su una moltiplicazione continua dei fondali (che non sono altro che riproduzioni fotografiche su varie scale del sipario scaligero). Tutto si svolge nell’interstizio materiale/simbolico tra il sipario reale e quelli fittizi, sulla superficie dello spettacolo, negando programmaticamente l’accesso a ogni presunta profondità e rendendo la superficie l’elemento centrale della rappresentazione. Mentre i sei personaggi superstiti intonano il fugato finale, l’ultimo finto sipario alle loro spalle si solleva, Don Giovanni avanza dal fondo del palco vuoto, seguìto dallo specchio iniziale, e con un gesto fa sprofondare tutti, intrappolando l’opera in una circolarità senza fine.

LA DIREZIONE di Pablo Heras-Casado è sinuosa, attenta alle preziosità timbriche che fanno presagire i sentimentalismi del secolo a venire, indiavolata o malinconica dove serve, ma a tratti, nei numeri a più voci, fatica a tenere insieme i solisti. Christopher Maltman posiziona il suo don Giovanni a metà strada tra vitalità e crepuscolarismo, tra performanza compulsiva e voyeurismo; speculare il Leporello di Alex Esposito, i cui istrionismi da commedia dell’arte lasciano trapelare le miserie del servo e l’affetto dell’amico. Se Hanna-Elisabeth Müller è una Donna Anna umbratile, commovente e allo stesso tempo ambigua, Emily D’Angelo è una Donna Elvira nevrotica, contraddittoria e perciò toccante. Esile nella sua ingenua sensualità la Zerlina di Andrea Carroll. Non troppo tonante il Commendatore di Günther Groissböck. Sfocato il Masetto di Fabio Capitanucci. Acerbo e talvolta fuori tempo il Don Ottavio di Bernard Richter, pur dotato di un bel timbro.