Con un passato di documentarista assai anomalo, già più di vent’anni fa a metà tra racconto e ripresa delle banlieues, Dominique Cabrera sarà da giovedì prossimo nelle nostre sale (distribuisce Kitchenfilm) con lo strepitoso Corniche Kennedy, continua fonte di vertigine. Sul ciglio di un’alta scogliera di Marsiglia si tuffano, beninteso da fuorilegge, i ragazzi dei quartieri periferici della città, divertimento e sfogo di libertà, quando un giorno arriva ad imitarli una ragazza dei quartieri alti. «Da molto tempo volevo filmare Marsiglia – dice la regista – poi, tra i tanti libri che avevo letto sulla città, ho trovato il romanzo di Maylis de Kerangal e mi sono decisa a farlo. Io sono nata dall’altra parte del mare, in Algeria e Marsiglia è allo stesso tempo Francia, Italia, Grecia e Algeria. In particolare il luogo della Corniche mi dava la possibilità di fare il film senza riprendere la città, una sfida per me. Tutta l’attenzione è sui personaggi che si stagliano sullo sfondo del cielo e del Mediterraneo. Mi sembrava fosse forte l’astrazione di questo sfondo e la realtà vivida dei personaggi che vengono in centro a fare qualcosa di straordinario e diventano i re della Corniche».

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Chi sono questi ragazzi?

Non sono attori professionisti. Li ho visti che si tuffavano e li ho fotografati. Quando li ho incontrati ho rimodellato la sceneggiatura sulle loro vite. Un giorno ho incontrato i due protagonisti e ho chiesto che mi aiutassero a scrivere i dialoghi. Io dicevo: guardate che voi dovete solo aiutarmi con il gergo e fare qualche tuffo, non siete in grado di recitare. Poi è successo che, quando abbiamo scritto insieme, loro hanno detto: è la nostra storia, vogliamo recitare. Abbiamo così realizzato un laboratorio che è durato alcuni mesi e quando è arrivata Lola Créton, una bravissima giovane attrice qualcosa è scattato in quel terzetto. Si è creata in modo naturale una complicità tra coetanei. Ci sono situazioni sul set in cui si mettono insieme le cose e si aspetta che la grazia arrivi. Il trucco è cercare di farla funzionare. Dovevano fare solo le controfigure e invece ho preso loro come protagonisti. Li volevo rendere realistici, universali come le statue greche, rendere il senso della bellezza e questo è stato possibile lavorando molto con la luce. Non avendo molti soldi, abbiamo utilizzato la luce naturale.

Una mescolanza di professionisti e attori presi dalla strada…

Sognavo di fare film come Vittorio De Seta, Banditi a orgosolo, come Stromboli che per me è stato oggetto di meditazione, dove Rossellini mette insieme documentario e fiction, attori professionisti e non professionisti: dalla recitazione e dalla realtà poteva nascere la bellezza.

Nel film si sente un costante senso di pericolo, di vertigine. E non solo per i tuffi da trenta metri, ma anche per la vicinanza con la malavita. Come vi siete regolati sul set?

Loro si definiscono «tuffatori», ma ora che sono stati immortalati dal film si tuffano molto meno. Per quanto riguarda il pericolo, loro ne erano al corrente. Avevamo una squadra di soccorso e le scene non si giravano più di due volte. Tuffarsi è pericoloso, ma non come essere arruolati dalla mafia. Fanno quei tuffi per farsi vedere e lavorano tutti rischiando di morire per i trafficanti. Quella dei tuffi è parte della cultura marsigliese. C’è da dire che il tuffo da più in alto è stato fatto dal campione del mondo Lionel Franc.

Quali sono stati i rapporti con Maylis de Kerangal, l’autrice del romanzo?

Lei mi ha detto che quando cede i diritti, li cede. Ogni tanto le mandavo versioni della sceneggiatura, ma né io né lei volevamo scrivere insieme. È venuta quando facevamo i laboratori di recitazione con i ragazzi per vedere come si appropriavano del testo, e ha ammesso che era bene che i ragazzi «invadessero» il film.