Con Lettera su un altro continente (traduzione, sensibile, di Ondina Granato, pp. 410, euro 16,50) Del Vecchio Editore prosegue un ambizioso progetto che, formulato e gestito da Paola Del Zoppo – qui in veste di curatrice –, prevede la pubblicazione di tutta la lirica di Hilde Domin e dei suoi testi saggistico-narrativi. Domin, già nota al pubblico italiano grazie alle raccolte Con l’avvallo delle nuvole (2011) e Alla fine è la parola (2012) – uscite appunto da Del Vecchio, sempre nella traduzione di Ondina Granato –, rappresenta una voce seducente e certo non marginale nel contesto della lirica tedesca di età contemporanea, inserendosi in quell’ampio dibattito, inaugurato da Adorno e continuato per un trentennio, circa le possibilità della «poesia dopo Auschwitz» e l’utilità della lirica in un’epoca che richiede un ruolo attivo dell’intellettuale nella società.

Nata nel 1909 a Colonia, Hilde Löwenstein (lo pseudonimo Domin fu scelto in ossequio alla Repubblica Dominicana che le diede rifugio per quattordici anni durante l’esilio dalla madrepatria) si forma nel fertile milieu di un’agiata casa della borghesia ebrea assimilata. Nel 1929, iscrivendosi all’università di Heidelberg, la cittadina sul Neckar che all’epoca attraversava il suo periodo d’oro, complice il culto di Stefan George e la presenza di docenti d’eccezione, Domin, studentessa di scienze sociali, segue le lezioni di Jaspers e Karl Mannheim e fa presto la conoscenza dello studente di archeologia Erwin Walter Palm, suo futuro coniuge e compagno d’esilio.

Invasato da febbrile amore per la poesia di George, cultore dell’antichità classica e con aspirazioni letterarie, Palm condiziona proficuamente gli interessi di Domin, che condivide con l’amato la passione per i classici della letteratura nazionale e internazionale – a testimoniare il connubio intellettuale è un fitto carteggio, di recente parzialmente pubblicato in Germania.

Quando nell’ottobre 1932 la coppia di studenti decide di lasciare Heidelberg per proseguire gli studi in Italia, non presagisce che un ritorno in Germania sarebbe stato possibile solo trent’anni più tardi. L’avvento al potere del nazionalsocialismo nel 1933 converte, infatti, il viaggio di studio in Italia in esilio volontario, dando l’abbrivo a una trentennale lontananza dalla madrepatria e a quel periplo linguistico che si rivelerà poi fruttuoso sul versante poetico: in Italia, Inghilterra e Santo Domingo, passando per gli Stati Uniti e la Spagna, prima di un definitivo approdo in patria nel 1960, Domin impara a padroneggiare la lingua dei paesi ospitanti.

Nel saggio autobiografico Vita come odissea linguistica Domin descrive, infatti, il suo esilio come un transito obbligato da un apprendistato linguistico all’altro, prima che da un paese straniero all’altro: «La bocca morente / si affanna / per la parola / pronunciata correttamente / di una lingua / straniera», si legge in «Esilio», una delle poesie offerte dal volume ora edito. «Poetessa del ritorno» par excellence, stando alla felice definizione con la quale Gadamer salutò il suo debutto letterario (avvenuto nel 1959 con la pubblicazione di Solo una rosa a sostegno), Domin si dichiarò consapevole che il suo ritorno in Germania rappresentasse un fattore fortemente catalizzante sul versante dell’ispirazione letteraria. Di conseguenza, la produzione poetica, saggistica e autobiografica, concepita a distanza di tempo dagli eventi traumatici della guerra e della persecuzione, pur essendo attraversata dal filo rosso dell’esilio, sembra trarre linfa vitale da un’altra esperienza, sorella germana della precedente, che per la poetessa fu ancora più cruciale: quella del ritorno in Europa, e poi in patria, dopo lunghi decenni di assenza. «Ogni ricordo soffriva / troppo lontano / troppo lontano oltre la meta / di nostalgia. // Ma la tenerezza / del cotiledone / senza cui non esiste crescita / il riparo di una mano» si legge in «Chi torna a casa», una poesia appartenente a Qui (1964), la prima delle tre raccolte poetiche ora offerte in italiano, a cui seguono Figure rupestri (1968) e Ti voglio (1970).

Dall’intensità dell’hic et nunc, al quale rimanda il titolo della prima raccolta, germinano componimenti concisi, versi antiretorici, programmaticamente nudi. Non ornamentale è l’istante irripetibile del Nichtwort, della «non parola», ovvero della lirica, quella «pausa attiva» nella quale l’io, in collisione sgomenta con la realtà, rinviene una possibile, seppur paradossale, collocazione fenomenica: «Lirica / la non parola / tesa / tra / parola e parola» («Lirica»).

È soprattutto la riflessione sull’acquisizione di senso della lirica in un’epoca attraversata da scetticismo nei confronti dell’utilità sociale della poesia e del poeta, a costituire il vero Leitmotiv dei tre cicli poetici. Le considerazioni poetologiche espresse da Domin tra gli anni sessanta e settanta in diversi saggi costituiscono lo sfondo teorico su cui vanno collocate le tre raccolte poetiche. «Strappa la palpebra: / spaventati. // Ricuciti la palpebra: sogna» («Strappa la palpebra») si legge in un componimento, dal quale si rinviene, attraverso l’immagine dolorosa di una mutilazione fisica, il senso di quell’insanabile ferita tra l’io lirico e la realtà storica, nonché le prospettive offerte da una realtà altra, dischiusa dal sogno. La poesia assurge a esorcismo contro le fauci del tempo, scandito dal reiterato assassinio di Abele o dal non senso delle fatiche di Sisifo (due figure-chiave della poesia di Domin): «Questa è la nostra libertà / dire i nomi giusti / senza paura / con voce flebile // chiamare l’un l’altro / con voce flebile / chiamare per nome il mostro / con nient’altro che il nostro fiato // salva nos ex ore leonis / lasciare aperte le fauci / nelle quali non viviamo / per nostra scelta» («Salva nos»).

In Ti voglio, la raccolta più tarda, la poetessa continua a riflettere sulla necessità di restituire alla parola autenticità, libertà dalle possibilità di manipolazione operate dalle leggi del mercato e dallo spirito del tempo: «Parola libertà / che voglio irruvidire / ti voglio riempire di schegge di vetro / così è difficile tenerti sulla lingua / non diventi la palla di nessuno» («Ti voglio»). Fanno eco efficacemente, a questo proposito, i versi di «Alternativa», nei quali si coglie una risposta al verdetto di Enzensberger circa l’inutilità della poesia (e del poeta) in tempi che pretendono un coinvolgimento militante dell’intellettuale nella società: «Vivevo su una nuvola / su un piatto volante / e non leggevo i giornali. // I miei piedi delicati / non percorrevano più le strade / che non sapevano percorrere. // Consolandosi l’un l’altro / come due colombe / rimpicciolivano ogni giorno di più. // Certo ero inutile. // Il piatto di nuvole si spezzò / caddi nel mondo / un mondo di carta smerigliata. // I palmi delle mani mi fanno male / i piedi si odiano l’un l’altro. / Piango. // Sono inutile».

Parallela alla riflessione sulla creazione poetica è quella sulla memoria (particolarmente vivo in Germania, tra gli anni sessanta e settanta, è il dibattito sulla Schuldfrage, ovvero sulla rielaborazione collettiva delle colpe storiche). La poetessa ebrea, refrattaria all’odio ma non allo sgomento, indugia sovente sulla ferita aperta del ricordo individuale dell’orrore, reso ancora più feroce dalla minaccia della rimozione collettiva e dal reiterato accanimento dell’uomo sull’uomo. La Germania, il paese «in cui i morti hanno paura», ridesta nell’esule rimpatriata il ricordo sempre attuale delle colpe storiche, il loro perturbante coesistere con quel Qui che è patria ma anche memoria: «A volte ti vedo / dilaniato da bestie feroci / da esseri umani animali / Forse ridiamo // La tua paura che io non vidi mai / questa paura / io vedo voi» («Tempi bui»).