In letteratura, si sa, niente è casuale. Ogni elemento entra in un sistema della cui logica diventa parte e con cui dialoga. Il titolo poi è un biglietto da visita esplicito, che, come una freccia segnaletica, introduce il lettore all’opera. Si potrebbe costruire una storia del romanzo moderno attraverso la sequenza delle opzioni scelte dai singoli autori.  I titoli referenziali funzionano come una etichetta apposta su un vaso trasparente: I promessi sposi o Le confessioni di un italiano o ancora I Malavoglia indicano esplicitamente quale questione o quale argomento il lettore avrà davanti. I titoli ambigui suggeriscono solo parzialmente il contenuto, attraverso richiami da comprendere e da interpretare: Il fu Mattia Pascal o Senilità o Con gli occhi chiusi nascondono un significato cifrato, che, per essere compreso, attende la cooperazione intelligente di chi legge. L’opposizione tra un tipo e l’altro marca la frattura che si è prodotta nella forma e nella storia del romanzo.

Il titolo allusivo adottato da Domenico Starnone per il suo nuovo romanzo, Il vecchio al mare, appena pubblicato da Einaudi (pp.  pp. 128, € 17,00) evoca automaticamente il grande racconto di Hemingway, Il vecchio e il mare, ma il passaggio dalla congiunzione e alla preposizione al sposta l’asse del racconto e marca una differenza più che una somiglianza. Dalla lotta ostinata di un uomo contro l’elemento naturale che si ribella al suo volere, si passa qui ai  soprassalti della mente di un vecchio, nel declino di una tarda estate. Il protagonista di Starnone abdica all’hemingwayano «ruolo del maschio che è allegro e indomito, anche se attempato», e imbocca un altro sentiero. I ricordi rimbalzano nella mente a brandelli, mentre «tutto si sta sgangherando, il corpo, il mondo, cielo e terra». Riaffiorano i fantasmi di un passato mai cancellato: la bellezza della madre, rievocata ancora vibrante di fascino; l’autorità intransigente del padre, custode geloso della donna amata e feroce guardiano della sua fedeltà. Sono lampi di una vita che ritorna come un’onda, mescolata alle cure mediocri di giornate banali, consumate in riva al mare o riaccese talvolta dall’incontro più o meno occasionale con altri esseri umani.

L’irruzione di una fanciulla smuove il flusso lento e uniforme del tempo. Una scintilla, l’immagine di lei si confonde con una più antica: come in un travestimento involontario, la fanciulla piena di energia sostituisce l’esistenza perduta della madre, sprigiona un fascino mai dimenticato, diffondendo il profumo di una forza reale e ancora attiva. L’attrazione di un corpo giovane si mescola con la sopravvivenza dei ricordi e intreccia la loro lontananza con l’immanenza del qui e dell’ora: «Le loro ombre fanno a spintoni, mi scappano dalla testa, si rincorrono adesso per la macchia sempreverde tra grida d’allegria e grida di dolore. E, intatta, si riproduce la pena terribile di amarsi facendosi del male».

Il nucleo di questo romanzo familiare richiama i temi che abitano gran parte del mondo di Starnone – da Via Gemito a  Vita mortale e immortale della bambina di Milano – e nella loro nuova declinazione assumono una drammatica vitalità, arricchita dalla quieta malinconia di uno sguardo più disteso, che ritrova il passato come parte definitiva del proprio destino.  Il vecchio registra la fatalità del tramonto che incombe da ogni parte intorno a lui, agendo sul corpo e sulle emozioni.

Come Starnone ha più volte sottolineato, raccontare non è un atto automatico: pensieri, ricordi, sentimenti, l’esistenza intera si illuminano attraverso le parole. Più volte, in questo stesso romanzo, l’autore richiama allo sforzo di utilizzare i termini esatti, distribuendo ciascuno di essi in un intrico di rapporti tali da restituire al meglio ciò che evocano. La provvisorietà del proprio racconto, fa dunque dire a Starnone che  «i verbi non sono giusti, forse anche la sintassi, devo pensarci, ne troverò altri o costruirò le frasi in altro modo». Accompagnato da un quadernetto inseparabile, scarabocchia appunti, che potrebbero diventare o no qualcosa d’altro.

Quasi a richiamare l’esercizio instabile e comunque minore del suo lavoro, Starnone aggiunge che il mezzo di cui si serve è una matita: grezza e rigida, Svevo ne aveva fatto l’indispensabile strumento per analizzare la parte più misteriosa della coscienza. Simile a lui anche in questa attitudine, lo scrittore disincantato del Vecchio al mare abbozza la traccia di un accadimento, trascrive frasi che potrà cancellare, o riformulare meglio. Ciascuna di esse è solo un’approssimazione, un tentativo per arrivare – vale per Svevo come per Starnone – «al fondo tanto complesso dell’io e tirare a galla qualcosa che non si capisce neppure bene che cosa sia: «sentimento, bizzarria, qualcosa di sincero, anatomizzato e nulla più». Starnone parla di «scrittura d’esercizio – minuscoli movimenti cavillosamente annotati, sensazioni insignificanti, frasi monche del parlato – che qualche volta mi è stata utile, ne ho cavato un dettaglio, un gesto, un borbottio». Si registra qualcosa per poi eliminare, alla ricerca di una precisione che renda al meglio l’altalena delle emozioni e gli stati dell’animo che accompagnano la sequenza dei fatti. Scrivere bene si risolve in questa essenziale verità: «Trovare le parole giuste per dare un senso a ciò che mentre vivi viene giù a vanvera».

Nel corso del romanzo l’apparizione di una figurina orlata d’oro ritorna più volte e resta a lungo un enigma. Quasi alla fine il fenomeno perde ogni connotazione fisica e si trasforma nel simbolo di un doppio processo, che coinvolge la vita, il suo movimento e, insieme, il modo di rappresentarla: «La cosa… che per comodità ho chiamato figurina è uscita dal di dentro del mio corpo, sgusciando via attraverso lo scollamento dell’unghia, come i topi opportunisti quando abbandonano la nave che affonda». Le singole parole, la sintassi in cui si compongono, l’ordine che il loro succedersi determina rappresentano la possibilità di dare  una forma all’informe dei vissuti. Il vecchio al mare, sia il libro sia il personaggio, sanno che nessun racconto raggiungerà il proprio obiettivo e le parole si risolveranno, ogni volta, in  una perifrasi inadeguata allo scopo.