Possiamo anche chiudere un occhio sulla gaffe del vice premier Di Maio che in visita in Cina ha chiamato «Ping» il presidente Xi Jinping. Potremmo anche derubricare a uno svarione storico, il cosiddetto epic fail di Dolce&Gabbana e continuare a cercare i soldi e la partnership cinese.

Ma la figuraccia del marchio italiano può anche diventare un evento su cui soffermarsi, ragionando su quanto si conosce in Italia della Cina. Benché non manchino i tentativi, l’Italia è ancora preda di un incredibile orientalismo, ovvero quella prassi di pensare ai paesi lontani come fossero una proiezione del proprio immaginario. Continuiamo cioè a pensare all’Oriente come a qualcosa di misterioso – e come scrive Renata Pisu nel suo «Oriente Express» anche «il misterioso Oriente» è un’invenzione occidentale – e come a qualcosa fondamentalmente più arretrato rispetto a noi, tanto da pensare che una campagna pubblicitaria grezza, che insiste sui luoghi comuni possa produrre nel pubblico cinese la classica «facciamo una risata».

Questo ragionamento – che su altra scala è stato per molto tempo utilizzato anche da imprenditori che per anni sono andati in Cina pensando di poter vendere ai cinesi qualsiasi cosa senza rendersi conto, in realtà, del grado di sofisticazione del mercato locale – poggia su una sorta di superiorità che si ritiene appannaggio dell’Occidente.

Significa, in pratica, non conoscere il proprio target, errore fatale per chi si muove su immaginari, advertising, potere del brand. Il business di Dolce&Gabbana ha uno dei propri mercati più propizi proprio in Cina; ha dell’incredibile – infatti – non solo la poca conoscenza della Cina, ma anche la sottovalutazione dell’attuale fase del paese asiatico.

Oggi i cinesi sentono di essere la popolazione di un paese che in trent’anni ha compiuto un salto quantico tra ere storiche. In trent’anni la Cina è passata da una situazione di estrema povertà a quella di potenza mondiale, ormai in procinto di diventare numero uno al mondo e determinare i destini anche di altre zone del mondo. Questa crescita economica ha visto il ritorno di un nazionalismo forte, basato su una sorta di sentimento di rivincita.

I cinesi si ricordano molto meglio di quanto non facciamo noi, cosa hanno combinato in Cina i paesi occidentali. E sembra naturale, perfino giusta – per quanto termometro di una situazione interna assatanata in fatto di patriottismo – una reazione infastidita a uno spot che pare riportare la storia indietro nel tempo. E che potrebbe essere utilizzato per valutare la conoscenza che l’Italia di oggi ha della Cina.