«Sono tornato dalla guerra… non solo con questa stupida gamba staccata, ma… senza di me. Mi è stata rubata anche l’anima. Conosco la storia di papà, di Lord Crenshaw che non trova il suo io. Non trova il suo vero io, cerca, e ogni volta ne ha uno diverso. Io non ho niente. Solo un vuoto, un’orribile paura, e poi sogni, in cui vengo assalito – è vita, questa?». Così si rivolge alla madre il soldato inglese Edward Allison, protagonista dell’ultimo e intenso romanzo di Alfred Döblin, composto fra il 1945 e il 1946, ma pubblicato in Germania orientale solo nel 1956 e, dopo lunghe e complesse traversie editoriali, da poco apparso in lingua italiana con il titolo Amleto La lunga notte sta per finire (traduzione e postfazione di Liselotte Grevel, Clichy, pp. 656, euro 14, 00). Le affermazioni di Edward, mutilato in oriente in seguito a un attacco aereo kamikaze alla nave della marina militare inglese sulla quale era imbarcato, riassumono con la tipica efficacia retorica di Döblin i grandi temi, attualissimi al tempo della stesura del romanzo, che quest’opera affronta: le ricadute della guerra sull’integrità fisica e psichica del reduce, le sue difficoltà a reinserirsi nella società d’origine, il difficile rapporto della generazione dei figli, coloro che avevano combattuto al fronte, con quella dei padri, ritenuta responsabile della guerra. Temi la cui virulenza era stata già denunciata dal teatro tedesco dell’immediato dopoguerra, nel dramma del reduce Fuori davati alla porta di Wolfgang Borchert, vengono ora affrontati da Döblin sfruttando la tecnica polifonica del montaggio che aveva uniformato la sua opera più celebre: Berlin-Alexanderplatz, il romanzo metropolitano per eccellenza della Repubblica di Weimar.

Per il reduce Edward «la vita si è trasformata in una successione atemporale di chochs, separati da intervalli vuoti, paralizzati», scrisse Adorno nei Minima moralia: gli anni erano gli stessi in cui Döblin compose il suo Amleto, ed entrambi erano in esilio negli Stati Uniti. Ma in contrasto con quanto Adorno scriveva tra quelle pagine – «l’idea che, dopo questa guerra, la vita potrà riprendere “normalmente” o la cultura “ricostruita”… è semplicemente “idiota”», Döblin credette alla possibilità di ricostruire la cultura tedesca dopo il nazismo. Si sentì anzi chiamato a partecipare in prima linea alla rifondazione intellettuale della Germania, dopo averla lasciata nel febbraio 1933, all’indomani del rogo del Reichstag, per riparare prima in Francia e poi negli Stati Uniti. Anche perciò, Döblin fu fra i primi intellettuali esiliati di origine ebraica a rientrare in Germania dalla «Weimar sul Pacifico», quella California che era diventata durante la guerra il centro della cultura tedesca.

È mentre si trova in esilio a Hollywood, dove lavora come sceneggiatore per la Metro Goldwin Meyer e si converte al cattolicesimo, che Döblin inizia a scrivere il romanzo destinato a contribuire alla rielaborazione del passato, alla denazificazione della Germania e alla rieducazione dei tedeschi. Obiettivi che furono anche alla base del progetto culturale della rivista, che l’autore fondò nel 1946, «Das Golden Tor», traduzione tedesca di Golden Gate, il celebre ponte di San Francisco rievocato dal titolo della rivista in quanto simbolo di libertà e di un possibile raccordo intellettuale fra le due Repubbliche tedesche al tempo statu nascendi.

Nella sua evidenza, il rimando all’Amleto di Shakesperare è emblematico della volontà di Döblin di evocare, grazie all’immagine del principe danese, il complesso di turbe psicologiche delle quali soffre Edward: un irrisolto complesso edipico, un altrettanto insuperato conflitto con il padre, la ricerca spasmodica della verità, una perdita identitaria, la percezione di uno strappo fra verità e immaginazione. Sono questi i grandi e amletici temi che il romanzo affronta attraverso la strategia del racconto nel racconto, grazie alla quale Edward cerca risposte alla «lunga notte» che lo ha avvolto dopo l’esperienza del conflitto. Le 56 prose che compongono i cinque libri dell’opera sono perciò conversazioni, più che racconti, fra Edward e i componenti della sua famiglia che, a scopo terapeutico, ripercorrono le trame di opere della tradizione letteraria occidentale e orientale. Organizzate dal padre del protagonista, un famoso scrittore isolato nel suo mondo fantastico, le serate narranti ripropongono racconti biblici, miti antichi, leggende medievali, sonetti di Michelangelo, il Re Lear e l’Amleto shakespeariani, ma pure riflessioni di Kierkegaard.
Dietro al padre di Edward si riconosce, almeno in parte, l’ultimo Döblin, immerso nella propria utopica riproposizione della Weltliteratur, attraverso la quale la Germania possa affrontare la «questione della colpa», tanto attuale all’epoca grazie alle tesi di Karl Jaspers. Ma è il procedere psicoanalitico a meritare attenzione: perché oltre a riflettere la prospettiva dell’esilio dalla quale l’autore aveva osservato la Germania, questa prospettiva innalza il romanzo a osservatorio pschiatrico di un io scisso, che si sente «come Amleto al quale tutti mentono, che tutti vogliono distrarre e che, alla fine, mandano in viaggio – perché lo temono, perché sa che cosa è successo».

Döblin era stato a lungo psichiatra nella Berlino di Weimar, dunque in Amleto il piano autobiografico si interseca con quello della finzione e il romanzo funziona da testimonianza di quella letteratura teorizzata da Heinrich Böll in Adesione alla letteratura delle macerie, una letteratura di cui si doveva scrivere «sulla guerra, sul ritorno a casa e su ciò che avevamo visto durante la guerra e che trovavamo tornando a casa: ed erano macerie». Ma Amleto è soprattutto un viaggio psicologico alla ricerca di se stessi e di una approssimazione alla verità, come sottolinea Liselotte Grevel nella sua preziosa postfazione al romanzo: Edward scoprirà, infatti, attraverso le «conversazioni» psicanalitico-letterarie, la falsità attorno alla quale il suo io si è costruito. Per renderne possibile la pubblicazione nella Germania orientale, Döblin cambiò il finale del romanzo, alludendo tra le sue pagine alla realizzata utopia statale del socialismo reale e veicolandovi un qualche messaggio di speranza. È, infatti, in una nuova, «brulicante e rumorosa città», cui si fa rifermento nella conclusione del libro, che Edward, sebbene inseguito dallo «spettro di Amleto», pare essere giunto a patti con la lunga notte del suo doloroso passato; allo stesso modo, la Germania, sulla quale si estendeva l’ombra di Hitler, avrebbe potuto rielaborare il dodicennio nero grazie a un confronto condotto nel nuovo assetto politico-sociale della Repubblica democratica tedesca.