Secondo Svetonio, all’approssimarsi della morte Vespasiano imperatore disse: «Ahi, sto per diventare un dio, credo». Fossero queste o no le sue parole, esse, come in molti aneddoti, possono aiutare a capire un complicato fenomeno del mondo romano, chiamato ‘culto imperiale’. La divinizzazione dei Cesari fu una realtà complessa, e non è facile per i moderni afferrarne il senso (come anche per altri aspetti della cultura antica). Però l’interesse della ricerca è notevole: pur se la scena contemporanea è popolata di figure per lo più mediocri, inette a provocare culti della personalità, come si videro nel secolo scorso. Ma proprio quei culti evocava Arnaldo Momigliano in apertura di un saggio del 1986, che appunto studiava Come gli imperatori romani divennero dei. La ricerca sul tema si è affaticata a lungo nel contrasto tra differenti interpretazioni storico-religiose, oppure nello sforzo di ridurre la portata del fenomeno, facendone una mera simulazione o un’imposizione dall’alto. Le indagini più recenti si sono concentrate sulle immagini, i luoghi, i testi, le parole dei riti, che per vari secoli furono indirizzati, con diverso modo in vita e in morte, al più alto magistrato dell’impero. Anche le parole: all’imperatore defunto poteva essere attribuito il titolo di divus, ben diverso da deus (mentre il greco unificava tutto in theòs). Prima di teorizzare, quindi, bisogna capire e definire i concetti base: per esempio la (per noi) sfuggente entità detta genius, che nel culto svolse un ruolo importante.
Questa prospettiva, concreta e prudente, anima il «volumetto» di Cesare Letta Tra umano e divino Forme e limiti del culto degli imperatori nel mondo romano (Agorà & Co., pp. XVIII-204, € 35,00). Servendosi di ampia documentazione (soprattutto iscrizioni e manufatti, oltre ai testi), con una esposizione chiara, che senza pedanteria distingue, puntualizza, discute l’opera di altri studiosi, il libro mira a mostrare che, stando alla documentazione disponibile, «nel culto di stato nessun imperatore fu mai adorato come un dio da vivo» (p. 86). Il tema è affrontato da differenti lati, perché il culto imperiale era un poliedro con molte facce.
C’era un culto ufficiale (la «religione di stato») rivolto ai divi; c’erano riti vari (giuramenti, sacrifici al genius), i quali implicavano un richiamo (indiretto) all’imperatore vivente; c’erano riti nelle città e nelle province, in forme ulteriormente cangianti, nello spazio (per effetto di consuetudini o tradizioni locali preesistenti) e nel tempo (per le differenti scelte di indirizzo da parte dei Cesari). Naturalmente varie erano le forme del culto privato, pure segno di un omaggio non però implicante divinizzazione in vita. Nelle città, onnipresenti erano immagini dell’imperatore in carica, alle quali erano rivolti gesti di omaggio, doveroso riconoscimento di maiestas. Ma, insiste Letta, non gesti di culto: il Cesare divinizzato era destinatario diretto dei riti a lui rivolti post mortem, mentre da vivo era beneficiario indiretto di riti rivolti al suo genius. Non è eccesso di sottigliezza, sì l’impegno a chiarire una realtà molteplice, non ben documentata, spesso misinterpretata.
Una difficoltà ulteriore viene dal fatto che il culto, nato nell’occidente latino, vigeva anche nel Mediterraneo greco. Ma in quel mondo, fin dall’età ellenistica, l’idea di indirizzare atti di culto a un uomo vivente e di divinizzare un re si era affermata. Sicché la diffusione dei culti per l’imperatore, registrata anche dagli storici antichi, fu certo più «naturale» e libera dalla distinzione tra imperatore vivo o deceduto. A Roma, dopo precedenti repubblicani legati a figure molto carismatiche, il fenomeno conobbe la svolta con la proclamazione di Giulio Cesare morto come divus. Di qui mossero «la sacralizzazione in vita» e la «divinizzazione dopo la morte» del suo figlio adottivo, l’Augusto. Tra i suoi successori defunti, alcuni, non certo tutti, furono decretati divi: ma solo dopo la formale ratifica del senato. Si poteva ridere di tutto ciò, certo: così fece Seneca nel descrivere l’ascesa al cielo di Claudio, a passi incerti, verso un consesso di dèi tutt’altro che desiderosi di accoglierlo. Ciò non significa insensatezza del rito, perché a Roma, come ricorda John Scheid, «fare è credere».
Per meglio capire, anche il riferimento all’esperienza nostra può giovare. Non tutti i devoti odierni saprebbero distinguere adeguatamente tra la venerazione per Maria, superiore a quella rivolta ai santi, e l’adorazione destinata solo alla divinità (una e trina). Similmente, in antico, «doveva esser facile varcare la sottile linea che distingueva il semplice omaggio reso a un uomo di cui si riconosceva la superiorità dal vero e proprio culto tributato a un dio» (p. 165). L’uomo antico non conosceva le polemiche contro il «culto della personalità» condotte da Marx (suo, per altro, il concetto!), ma avrebbe capito bene le considerazioni di Max Weber sul charisma.
Solo alla fine, quando dunque è opportunamente informato, il lettore incontra il punto forse più noto del tema, ossia il cristianesimo. Come si legge nella lettera di Plinio a Traiano o negli atti dei màrtiri, per i primi cristiani ogni gesto di adorazione era inammissibile: ma «le autorità romane non richiesero mai di riconoscere la divinità dell’imperatore vivente o di sacrificare a lui come un dio». Il problema era rappresentato da «tutte le forme di attività cultuali che avevano al centro l’imperatore» come beneficiario (p. 153). Il rifiuto di compiere quei riti pagani, che riconoscevano quegli dèi «falsi e bugiardi» e il genius dell’imperatore, aveva effetti dirompenti per l’impero, e l’esito fu cruento. Più tardi, quando l’impero divenne cristiano e il culto degli dèi fu tolto di mezzo, i cristiani poterono pregare il vero e unico Dio perché proteggesse l’imperatore, onorato rispettosamente «non perché era un dio, ma perché era stato collocato in quella posizione dal volere di Dio».
I passi del libro sin qui riportati mostrano bene quanto il lettore ricava da una trattazione di dimensione contenuta e però documentata, sintetica e precisa: senza effetti speciali, che non siano il ragionamento e l’impegno costante a interpretare i dati senza forzarli né deformarli per amor di tesi. C’è quindi, oltre al resto, una salutare lezione di metodo.