Una pagina di storia nascosta, rimasta a lungo celata negli interstizi di un racconto pubblico che non ammette complessità o contraddizioni. Un mistero rivelato grazie ad una tecnica narrativa che guarda alla spy story, ma che non sacrifica mai al ritmo dell’intrigo letterario dati e elementi della realtà. Con Klausener Strasse (Minerva, pp. 249, euro 16,90, prefazione di Nicolai Lilin) Giovanni Mari non costruisce solo un romanzo storico di grande efficacia, ma indaga con estrema determinazione su un’epoca e i suoi protagonisti fino a restituire, alla luce del disvelamento di un «caso», le coordinate di una stagione determinante della recente storia europea.

IL «MISTERO» al centro del libro è, come spesso accade per i meccanismi della «grande Storia», una vicenda della quale, almeno in apparenza, si sarebbe portati a credere di conoscere ogni cosa, fin nel più piccolo dettaglio. In questo caso si tratta della fine di Adolf Hitler.

SUICIDA nel bunker della Cancelleria di Berlino alla fine di aprile del 1945, mentre già la capitale del Terzo Reich era in gran parte nelle mani dei soldati dell’Armata Rossa, il «fantasma» del Führer sarebbe però diventato una presenza fissa in tutte le ricostruzioni più ardite e in odore di teorie complottiste del drammatico epilogo della Seconda guerra mondiale.
Al punto che venticinque anni più tardi, nella primavera del 1970, l’intelligence sovietica organizzerà una missione da hoc, dal nome in codice di «Operazione Archivi», per assicurasi che del capo del nazismo non possa più esistere alcuna traccia. Ed è il racconto di questo incarico segreto, attraverso i ricordi un anonimo soldato, integrato nei ranghi del Kgb come assistente di un colonnello, a sua volta alle dirette dipendenze del capo dello spionaggio sovietico – quell’Jurij Andropov che sarà in seguito alla guida del Pcus dal 1982 al 1984 -, a costituire la trama di fondo dell’opera di Mari, basata su documenti originali e una ricca bibliografia.

CONSIDERATO dallo stesso Andropov alla stregua dell’ultimo, e decisivo atto della «Grande guerra patriottica» costata milioni di morti all’Unione sovietica, la distruzione dei resti di Hitler, Eva Braun, Joseph Goebbels e sua moglie Magda, oltre che dei loro cinque figli, tutti suicidi o costretti alla morte nel Bunker di Berlino mentre calava definitivamente il sipario sul nazionalsocialismo, rappresentava una priorità per Mosca. Trasferiti più volte dopo l’ingresso dei russi in città, i corpi dei nazisti andavano dissotterrati dalle campagne del Magdeburgo dove si trovavano, bruciati e i loro resti gettati in un fiume della zona. Lo scopo era duplice. Da un lato «evitare problemi per un futuro ritrovamento del cadavere del dittatore» che avrebbe potuto alimentare atteggiamenti nostalgici, specie se in presenza di un preciso luogo di sepoltura. Dall’altro, paradossalmente, «rafforzare la “verità” di un corpo mai rinvenuto e quindi di una morte presunta, di un nemico da continuare a combattere». Per i dirigenti sovietici si trattava di acquisire una certezza quanto alla fine effettiva di Hitler, ma al tempo stesso di poterne evocare a proprio piacimento lo spettro minaccioso.

PRIMA DI PASSARE, e con successo. all’azione, gli agenti di Mosca passano così in rassegna tutte le tracce lasciate da quei resti e le prove cui sono stati sottoposti per stabilirne senza alcun dubbio l’autenticità. Un tema alla base di una nutrita serie di studi, tra i quali si può citare l’inchiesta firmata un paio di anni fa dal giornalista Jean-Christophe Brisard e dalla documentarista Lana Parshina, L’ultimo mistero di Hiltler (Ponte alle Grazie).

Ma se questo è il piano narrativo esplicito di Klausener Strasse, titolo che evoca l’«ultimo indirizzo conosciuto» del corpo del Führer, come in un gioco di specchi, Mari delinea contemporaneamente la realtà sovietica dell’epoca, immergendosi di continuo nelle contraddizioni come nei delicati equilibri di potere alla base della politica dell’Urss. Se la fine del capo del nazismo serve così a definire i contorni di un’epoca che si chiude definitivamente, lo scorcio che dalla Lubjanka, il «palazzo» del Kbg nel cuore di Mosca, l’autore offre della vita del sistema sovietico, sembra annunciare un mondo ancora di là da venire: quello che sarà inaugurato dalla caduta del Muro di Berlino.