Domani rientro al lavoro. Stasera cena di saluti al cohousing. Oggi camminata con due amici e due panini in montagna. Legno, pietra, cielo basso e nebbioso, odore improvviso di fuoco acceso. Ci sediamo su un prato roccioso, chiacchiere di niente e guardiamo scorrere le ore ed il vallone davanti e piccole ombre laggiù di gente o animali che si muovono. Questa gita è nostalgia del tempo, come aver bisogno di guardarlo, di capirlo, prima che faccende quotidiane e del mondo mi inghiottano. Comprendo chi chiude con lavoro e città e cerca comunità e autosufficienza in qualche pezzo di terra un po’ fuori mano: un modo per poter gestire il tempo e l’ordine delle cose. È che le cose vanno di suo in disordine e noi siamo solo ospiti del tempo. Il cohousing è già dono di spazio-tempo «sospeso», ma quando apro le finestre entra il mondo e mi ci sento sempre un po più spaesata. A cena sottotono i racconti delle vacanze. Finiamo per parlare di migranti: bufera che scuote le coscienze. Luana è preoccupata perché in città ne sono accolti più di 50 in un hotel centrale. «strutture idonee per breve accoglienza, altrimenti luoghi di segregazione e non integrazione». Pensieri diversi «È questione politica» , «ognuno si impegni a fare quello che può». Poldo ci fa riflettere: «arrivano disperati, ma sono pieni di speranza. È una grande risorsa di capitale umano, con le loro abilità precedenti. È necessario uno sforzo di formazione». Parlo di un libro che mi ha illuminato: La cura di Simone Ramilli, naturopata e fondatore della psicobiotica, che studia la relazione tra malattia e conflitti biologici. Propone connessioni tra conflitti nella società, interiori ed insorgenza di condizioni di malattia, ma anche di processi che possono portare a guarigione. L’idea è che modalità di vita e pensieri che recano vitalità ad un sistema vivente rappresentino l’atto di cura più potente, mentre pratiche che provocano o aggiungono sofferenza, riducano le risorse di autoguarigione e vengono viste come pratiche di potere. Se osserviamo la natura vediamo che il processo evolutivo della vita è legato ad una sequenza di informazioni che attraverso dispositivi biologici perfezionati e diversificati nei secoli ha permesso di aumentarne progressivamente la complessità per sostenere un rapporto adeguato con le complessità esterne e non subire danni. Dunque l’ipotesi è che base di conoscenza e segreto di ogni cura (anche sociale) è lo studio del flusso di tali informazioni. E da ciò vediamo che la vita procede dall’unità al molteplice, dal semplice al complesso e dunque per l’uomo la compiutezza non è data nell’unità, ma nel processo che dall’unità va al molteplice e nella loro relazione. Allora la coscienza della specie potrebbe evolversi non tanto con tensione di trascendenza che porti all’unità (in forma divina o altro) ma con la maggiore capacità di inglobare e non distruggere le complessità del percorso evolutivo. La storia dei migranti, ora,è la sfida evolutiva della nostra specie e non ne dobbiamo avere paura, se sapremo «inglobarla» con vitalità.