A dispetto di ogni apparenza contraria, è questo il momento per non limitarsi a una sommatoria di bonus, una tantum, ristori compensativi dei maggiori costi energetici e, viceversa, lanciare una grande iniziativa di politica economica per un “nuovo modello di sviluppo” trainato da un Piano straordinario per la “creazione diretta di lavoro”.

Premono le avvisaglie inflazionistiche e di frenata della crescita accentuate dalle drammatiche ripercussioni economiche dell’aggressione russa all’Ucraina. E milita in favore di una tale mobilitazione il fatto che, nei tre anni passati, l’infierire del Covid ha fatto crescere, in Italia come in Europa, la fiducia del lavoratori nei sindacati e nelle istituzioni pubbliche, fiducia non intaccata dall’angoscia crescente suscitata dalla tragedia ucraina (che pur potrebbe indurre una rassegnazione sgomenta e affranta). Macron, non a caso, rilancia alla grande l’idea della “pianificazione”.

Occorrono lo spirito, il dinamismo, la creatività di una vera e propria rinascita. Del resto, non hanno scalfito la critica situazione occupazionale italiana – con un tasso di occupazione medio a poco più del 59% (la media Ue è al 67%), un part time involontario (prevalentemente femminile) al 66%, contratti a tempo determinato dilaganti (il 40% dei quali di una durata di soli 30 giorni) – né trent’anni di politiche di “occupabilità” (di fatto una versione delle politiche dell’offerta di ispirazione liberista applicate al lavoro), né la marea di liquidità creata dalle Banche centrali di tutto il mondo a partire dalla crisi del 2007/2008 (che non ha preso la via di più investimenti, anzi crollati, e di più occupazione, ma piuttosto quella di più speculazione e più finanziarizzazione), né i tantissimi provvedimenti emergenziali degli ultimi tempi, prevalentemente costituiti da misure indirette e da trasferimenti monetari (come le decontribuzioni, i bonus, gli incentivi fiscali), con un modestissimo moltiplicatore sul Pil.

Queste misure “indirette” si sono rivelate sempre “insufficienti” a rilanciare davvero lo sviluppo e l’occupazione e talora addirittura “controproducenti”, perché causano turbolenza azionaria, speculazione, accentuazione della già elevatissima finanziarizzazione. Servono, dunque, misure “dirette” animate dalla volontà di realizzare la “piena e buona occupazione”,utilizzando tutte le leve possibili, compreso il ricorso allo Stato come employer of last resort.

Va colta tutta la bruciante attualità dei moniti di Keynes, il quale ci segnalava che “non dovrebbe essere difficile accorgersi che 100.000 case nuove rappresentano un’attività per la nazione mentre un milione di disoccupati sono una passività” e denunziava “l’atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni”. In Italia – che potrebbe trasformarsi in un “laboratorio” emblematico – i bisogni sociali insoddisfatti, da soddisfare con il Pnrr e oltre il Pnrr, sono tanti e profondi: 1) tenuta del territorio, riassetto idrogeologico, salvaguardia e valorizzazione del paesaggio naturale e artistico; 2)rilancio delle città (con la valorizzazione degli innumerevoli beni culturali e delle alle attività di “cura”, la bonifica e l’innalzamento della qualità della vita nelle aree interne e nelle periferie, la contrazione dei consumi energetici, l’infrastrutturazione digitale);3) scuola, Università, ricerca (con il rinnovamento del patrimonio edilizio, il reclutamento e la formazione del personale, il completamento dell’obbligo, l’aumento del numero dei laureati, la messa in opera di un sistema di formazione permanente che si ispiri alle 150 ore, uno shock da imprimere alla ricerca di base, il superamento del gap formativo tra Nord e Sud).

Il punto è che per fare tutto ciò occorre un’articolata e ramificata “capacità progettuale” – che si potrebbe strutturare in una “Agenzia per il lavoro e lo sviluppo” costruttrice di una grande “banca progetti” – il che, a sua volta, richiede un intervento pubblico diverso da quello che si affida prevalentemente alla tutela della concorrenza.

Infatti, sono sbagliati gli approcci neoliberisti smaccatamente ostili allo Stato, ma sono inadeguati anche gli approcci main stream secondo i quali lo Stato deve limitarsi a “attività regolatoria” e “incentivi indiretti”, perché lo Stato può fare cose importanti ma limitate (ricerca di base, investimenti infrastrutturali), con l’idea di fondo che i mercati, quando siano concorrenziali, bastino a se stessi.
Ma in molte situazioni i mercati semplicemente non esistono o sono altamente incompleti, cosi come in molti casi decisivi i governi non hanno fornito solo attività regolatoria, hanno funzionato come “motore primo” dell’innovazione e della creazione di lavoro.