Europa

Disoccupati e inattivi, problema irrisolto

Scenari In Italia nove milioni di persone non lavorano, e con le misure in campo e la crescita prevista il futuro è di cattiva occupazione

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 20 marzo 2015

Oggi in Italia ci sono 3 milioni di disoccupati ufficiali; se ad essi si aggiungono i disoccupati parziali e gli inattivi disponibili si tratta di 9 milioni di persone: una situazione sociale drammatica che il Jobs Act non affronta. La sua filosofia di aumentare i posti di lavoro facilitando i licenziamenti e sussidiando le imprese a espandere i contratti a tempo determinato non è una soluzione. Basti pensare che il Cnel stima che con una crescita annua dell’occupazione dell’1,1% (scenario ritenuto ottimista) solo nel 2020 il tasso di disoccupazione si riporterebbe alla situazione pre-crisi (e a 1,8 milioni di disoccupati). Ma una tale situazione richiederebbe una crescita media della produzione del 2% e non è facile trovare qualcuno – anche con l’aria nuova di Cernobbio – disposto a scommetterci. A condizioni sostanzialmente inalterate di disoccupazione si accompagnerebbero condizioni di precarietà del lavoro: attualmente vi sono 3,4 milioni di working poor (0,8 tra gli autonomi), 2,5 milioni di lavoratori in part-time involontario (32% femminile), 65% dei nuovi contratti è a tempo determinato di cui il 46% registra una durata inferiore al mese. Se non si modificano le attuali istituzioni e politiche del lavoro, anche la prossima generazione vivrà una situazione di eccesso di offerta di lavoro che estenderà la precarietà alla maggioranza della popolazione attiva. Il futuro di scarsa e cattiva occupazione è il prodotto di un mercato del lavoro che opera come meccanismo di ingiustizia e di immiserimento sociale.

Non c’era certamente bisogno di un Jobs Act che volutamente consegna le vite dei lavoratori alle scelte socialmente regressive delle imprese. Vi è invece l’esigenza che di garantire a tutti un’attività (sia essa dipendente o indipendente) che assicuri una prospettiva di lavoro e di vita dignitosa. È in questa direzione che Sbilanciamoci! ritiene necessario proporre un terreno di confronto per elaborare un Workers Act, un progetto di politica per il lavoro, che si articoli lungo tre assi: attivazione di lavori concreti, riduzione dell’orario di lavoro, un welfare universalistico per il lavoro (dipendente e non). In primo luogo, va rilanciato il ruolo dello Stato (e degli enti pubblici) come occupatore di ultima istanza (Piani del lavoro, ma anche Servizio civile nazionale) finalizzando gli aumenti occupazionali alla creazione di valori socialmente utili. Inoltre occorre intervenire sugli orari di lavoro poiché – data l’attuale dimensione della disoccupazione, inoccupazione, sottoccupazione – è possibile ampliare i posti di lavoro solo riducendo il tempo medio di lavoro. Per garantire livelli adeguati di reddito a chi lavora a orari più ridotti occorre ristrutturare l’imposizione fiscale e previdenziale alleggerendola drasticamente su contratti più brevi e accentuandola su quelli prolungati. Ma anche così è difficile garantire all’intera popolazione attiva, in particolare a chi svolge un’attività autonoma, la disponibilità di un reddito. Occorre, terzo punto, ridefinire il sistema di welfare attorno a una forma di reddito minimo che, fungendo da salario di riserva, contrasti la pressione al ridimensionamento salariale. Si tratta di pensare a una misura, universale e incondizionata, che sia un punto di riferimento per il riassetto delle altre forme esistenti di sostegno del reddito.

Sono temi che richiedono una riflessione impegnativa, ma non tanto per i molti e importanti aspetti tecnici che si pongono: a questo livello, le capacità, le competenze e le intelligenze sono ampiamente disponibili. Quello che importa è la convinzione che questa prospettiva possa costituire il fondamento della politica economica. A nessuno sfugge infatti che, per realizzare una tale politica per il lavoro, siano necessari opportuni indirizzi di politica industriale per rafforzare e riorientare la crescita produttiva; che si richieda una politica fiscale che ne garantisca l’opportuno finanziamento e una amministrazione pubblica efficiente in grado di controllare e gestire l’intero processo. Si deve peraltro avere consapevolezza delle difficoltà che incontra una tale riflessione nell’attuale situazione culturale caratterizzata da una subordinazione al pensiero dominante che impedisce di pensare a qualcosa di diverso rispetto alla manutenzione dell’esistente.

Ma, a fronte di una tendenza strutturale che prospetta un futuro difficile per i lavoratori, è doveroso impegnarsi nel costruire un’alternativa altrettanto strutturale, con la consapevolezza che la soluzione non è dietro all’angolo, ma che è importante scegliere l’angolo sul quale svoltare.

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