«Disobbedire all’università-azienda»
Università e ricerca Il filosofo Tullio Gregory critica la valutazione dell’Anvur e gli esiti della riforma Gelmini. Non si placa la polemica sull’agenzia di valutazione della ricerca e i suoi metodi burocratici: «È stato imposto un linguaggio bancario»
Università e ricerca Il filosofo Tullio Gregory critica la valutazione dell’Anvur e gli esiti della riforma Gelmini. Non si placa la polemica sull’agenzia di valutazione della ricerca e i suoi metodi burocratici: «È stato imposto un linguaggio bancario»
Quindici anni dopo la prima valutazione della ricerca universitaria voluta da Margaret Thatcher in Inghilterra nel 1986, nel 2011 anche l’Italia ha avviato la sua prima esperienza con l’agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur). Oggi un sistema mal concepito, al quale prima il centro-sinistra nel 2007 e la successiva riforma Gelmini hanno attribuito un grande potere, tiene in ostaggio un’università tramortita.
Le «classifiche» che avrebbero dovuto istituire una graduatoria «oggettiva» tra atenei «virtuosi» e «viziosi» si sono rivelate ben poco «oggettive» (Il Manifesto 26 luglio); la chiusura del processo delle abilitazioni nazionali per stabilire il “merito” dei ricercatori è stata nuovamente posticipata al 30 novembre e 74 ricercatori stranieri si sono dimessi da 53 commissioni su 184. Il motore della valutazione è imballato, mentre in Francia il governo socialista ha annunciato a gennaio la chiusura dell’Aéres, l’agenzia che dal 2006 si è occupata di valutazione delle università e della ricerca. «Un delirio burocratico» l’ha definito l’Accademia delle Scienze. In Italia, invece, si continua su una strada che non porterà benefici e rischia di trasformare la natura stessa della ricerca assoggettata ad una valutazione astratta, imperativa e aziendalistica.
La pensa così Tullio Gregory, filosofo tra i più noti in Italia e accademico dei Lincei che nel modello Anvur scorge anche un altro rischio: «La polemica in corso sulla valutazione della ricerca nelle università italiane e quindi sulle classifiche finali delle varie sedi – afferma – può diventare uno spazio di esercitazioni retoriche o di competizioni campanilistiche se non si vedano i limiti delle valutazioni dell’Anvur e quindi se ne ridimensioni l’importanza».
Quali sono i limiti di questo modello di valutazione?
La sua astrattezza. L’Anvur pretende di valutare “enti” – con tutta la vuotezza di un termine «metafisico» – prescindendo anche dalle infrastrutture (laboratori, biblioteche, orari di apertura, incremento delle strumentazioni scientifiche e dei patrimoni bibliografici) e dagli effettivi risultati della ricerca dei singoli individui: il ricercatore è ridotto a un «sito docente» (cioè a una casella di un sistema informatico), il risultato del suo lavoro è un «prodotto» il cui valore è misurato dal successo sul mercato. Come ha scritto Sabino Cassese, applicando «tecniche ingegneristiche» e metodi burocratico-amministrativi, l’Anvur «ha ucciso la valutazione» e forse «ha ucciso se stessa».
È possibile immaginare un’alternativa a questo sistema?
Bisogna riscoprire la ricerca – e l’insegnamento – nella sua individuale concretezza che sfugge ai criteri dell’Anvur. Personalmente, se dovessi consigliare un giovane per scelte da compiere, prescinderei del tutto dalle valutazioni dell’Anvur. Se il giovane volesse studiare per esempio storia della filosofia medievale, consiglierei non solo l’Università del Salento a Lecce, che è ben valutata, ma anche l’Università di Bari, dove c’è anche un’ottima scuola di filologia classica. In questo caso non terrei in alcuna considerazione la classifica stilata dall’Anvur per questa sede, fra le ultime delle grandi. Non consiglierei invece lo studio della filologia classica in quelle università, pur valutate positivamente dall’Anvur, dove è ammesso sostenere l’esame di letteratura greca antica anche chi non ha una conoscenza della lingua. E potrei fare molti altri esempi.
Secondo lei è possibile valutare con criteri oggettivi le scelte degli studenti o quelle dei ricercatori?
Non è possibile valutare università, facoltà, dipartimenti come fossero realtà omogenee al loro interno. La situazione è estremamente frammentaria e l’unico punto di riferimento valido è costituito dai singoli professori, dal loro insegnamento, dalle ricerche che promuovono. Anche se non si deve sottovalutare il fatto che oggi il panorama universitario sta mutando con il cambiare degli insegnanti per trasferimento o pensionamento. E questo incide molto sui criteri della scelta.
L’Anvur è uno dei pilastri della riforma Gelmini. Allo stato attuale dell’applicazione della riforma, come giudica il futuro dell’università?
Credo che sia stato uno degli aspetti che ha contribuito al declino dell’università italiana come luogo primario dell’alta cultura e della ricerca specialistica. Tutto è cominciato quando l’università è stata investita, senza reagire, da una serie di riforme sconnesse volute da una classe politica, diversa negli anni, ma concorde nell’indifferenza per la cultura e la ricerca. Le materie di insegnamento sono state moltiplicate senza alcuna motivazione scientifica creando un inutile precariato. I concorsi per singole discipline sono stati aboliti, negando quindi la specializzazione che dovrebbe caratterizzare l’insegnamento universitario. Gli esami si sono ridotti al conteggio dei cosiddetti «crediti», esemplificazione di un mondo a cui è stato imposto un linguaggio aziendalistico e bancario. Così facendo si vuole ricondurre il lavoro di uno studente a determinate ore di studio in rapporto a un predefinito numero di pagine da studiare per l’esame. Le decine di testi, le migliaia di pagine che una volta erano richieste sono oggi frutti proibiti, come la discussione in lingua delle tesi in lingue e letterature straniere.
C’è un modo per resistere alla trasformazione aziendalistica degli atenei?
Se qualche università volesse tornare ad essere luogo di ricerca e di alta formazione, dovrebbe ritrovare la propria autonomia e la propria dignità riducendo radicalmente il numero delle materie di insegnamento, ignorando di fatto le disposizioni ministeriali. Così mi sembra si sia comportata Giurisprudenza di Roma Sapienza, proponendo corsi del più alto livello specialistico, selezionando in questa prospettiva professori e studenti.
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