L’incontro di apertura della seconda edizione del suo festival si intitola Del sacrosanto bisogno di natura e di avventura, parole che battezzavano il primo numero della rivista Alp, fondata nel 1985 da Enrico Camanni e Linda Cottino, e oggi una linea di pensiero molto diffusa.

Come mai avete scelto questo punto di partenza?

Immaginando un festival sul ritorno alla montagna ci piaceva partire dalla parola bisogno, da quello che le persone desiderano per la propria vita. Natura senz’altro: abbiamo il desiderio di una maggiore vicinanza alla terra, ai boschi, ai torrenti, agli animali, perché sentiamo che ci fa felici. Di senso dell’avventura ce ne vuole parecchio per lasciare la città e cambiare vita, ed è importante la carica utopica di chi fa una scelta del genere: non si va in montagna per guadagnare più soldi ma per inseguire le proprie aspirazioni, la propria idea di felicità. Però abbiamo bisogno anche di musica, di arte, di socialità, tutti contenuti oggi lontani dall’immaginario della montagna che è fatto di silenzio, fatica e solitudine. Al festival cerchiamo di soddisfare questi bisogni e di far incontrare tra loro nuovi montanari di diverso tipo: chi suona con chi coltiva le patate, chi scrive con chi alleva le capre o sale sulle cime. Anche chi alleva le capre ha bisogno di musica o di far l’amore. E chi come me scrive ha anche un corpo da far lavorare, perché così è più contento. Io al festival mi occupo di presentare i libri e di pulire i cessi: è una vecchia idea anarchica che mi sta a cuore.

Un incontro interessante sarà la tavola rotonda che accoglie esperienze collettive e di autogestione in ambiente rurale, con la partecipazione di esponenti dei villaggi di Granara, Paraloup, Agape e Urupia. Non trova che si sia diffusa, anzitutto sui media, una certa retorica riguardante la bell’avventura del tornare a vivere in montagna? Non ci sono rischi reali di illudere i più giovani, vista la vita agra, dura, severa, che la montagna offre, ieri come oggi?

Non seguo molto i media, non ho la televisione da anni e leggo poco i giornali, ma se lei ha rilevato questa retorica le credo senz’altro. Però non ne vedo gli effetti: abito in montagna da dieci anni e le giuro che non ho visto arrivare orde di idealisti a mettere a posto un rudere e coltivare un orto. Credo sia una moda più letteraria che reale. In ogni caso, se un ragazzo va a vivere in montagna e ci sbatte il muso non mi sembra niente di male: in questi anni c’è ben di peggio in cui sbattere il muso, che ne so, l’eroina, il calcio, il fascismo, non è la montagna il rischio del nostro tempo.

Inventare il paesaggio. Chi oggi naviga nella letteratura che ha radici nel paesaggio – la montagna, la foresta, la wilderness – si ritrova a conciliare una ricerca spirituale, più o meno dichiaratamente espressa, e urgenze pratiche, come il costruirsi un’esistenza in ambienti appunto non sempre favorevoli, anzi, molto spesso sfavorevoli. E’ cambiato qualcosa rispetto a una, due o enne generazioni fa? Qual è la sua esperienza personale?

Credo che non possiamo confrontarci con i montanari di una volta, ovvero con chi generazioni fa viveva in montagna per forza. Sto rileggendo in questi giorni Il mondo dei vinti di Nuto Revelli, la serie di interviste che lui fece nei primi anni Settanta agli ultimi testimoni di quel mondo: è una montagna in cui il confronto quotidiano è con la miseria, la vita è una lotta per mettere qualcosa in tavola, e non c’è nessuno spazio per altri bisogni umani come la bellezza, la libertà, la ricerca spirituale. Noi siamo montanari per scelta e facciamo senz’altro una vita più facile. Il riferimento è piuttosto Thoreau, un figlio della piccola borghesia che a ventisette anni, nel 1845, lascia la cittadina in cui è cresciuto e la piccola officina del padre per andarsene ad abitare nel bosco, e passa due anni in una casetta di legno vivendo del suo orto, libri e poco altro. Sì, siamo più vicini a Walden che al Mondo dei vinti. Quello di Thoreau era un esperimento economico e politico: vedere se riesco a vivere senza soldi e lontano dalla società è un modo per rifiutare le sue regole, un atto di disobbedienza civile. Ma era anche una ricerca d’altro tipo: il suo maestro Emerson parlava espressamente di utilità spirituale della natura. Non bisogna pensare che queste dimensioni si escludano a vicenda, che zappare l’orto o spaccare la legna impediscano la meditazione, o quella forma di preghiera (era Mario Rigoni Stern a definirla così) che è stare nel bosco da soli.

Quanto è distante la politica nazionale dai bisogni di coloro che intendono tornare a vivere in montagna e/o in ambienti rurali? Esistono margini di un incontro reale?

La politica nazionale è molto lontana. Nessun partito politico fa un discorso serio sull’ambiente, sull’economia di montagna e sulle sue possibilità di sviluppo, né tiene in considerazione un bacino elettorale così scarso come quello delle Alpi e degli Appennini (l’intera Valle d’Aosta in cui abito conta 130 mila abitanti, un quartiere di Milano). Le Regioni sono più vicine. Conosco in particolare la situazione in Piemonte e in Trentino-Alto Adige dove le amministrazioni si sono accorte che qualcosa in montagna si muove, e cominciano a dare una mano a chi fa la scelta difficile di andarci a vivere. E poi Comuni particolarmente virtuosi. Lontano da Roma e da Milano c’è tutto un mondo, siamo noi che abbiamo la responsabilità di raccontarlo.