Per essere stato giudicato un «levantino senza profondità e senza carattere», capace solo di ridurre le sublimità della prosa attica a futile gioco senz’anima (così Eduard Norden nel 1898), Luciano di Samosata gode però di solida fama. Un tempo i suoi Dialoghi degli dei erano tra i primi testi letti, da ginnasiali, in lingua originale: scenette algide, che apparivano allo stesso tempo ridicole e serie. Oggi, in epoca di reception studies, di Luciano si considerano le molteplici influenze esercitate. Basti qui un caso. Leopardi aveva pensato le Operette morali come «Dialoghi satirici alla maniera di Luciano», ossia «piccole commedie e scene di commedie (conforme diceva Luciano che i suoi erano un composto da lui per primo inventato, della natura del dialogo e della commedia)», cercando anche di imitare «la lingua al tempo stesso popolare e pura e conveniente».
Luciano è uno scrittore letteratissimo, autore di libri fatti di altri libri. I suoi scritti (ottanta opuscoli di varia dimensione, compresi alcuni spuri) si lasciano fruire a molti livelli differenti: a seconda che ci si faccia trasportare dalle storie, talora strampalate, o si apprezzi l’abilissimo rimontaggio di materiali desunti dalla tradizione ellenica, o si mediti sugli spunti moraleggianti. Aristofane e Platone furono i suoi principali modelli, non solo linguistici. Straordinaria la sua capacità di mescolare i materiali: la commedia e il dialogo filosofico, l’alto e il basso, il familiare e l’estraneo, la parodia e la satira, la serietà e la burla. Costante la scelta di celare la propria voce dietro differenti «maschere», in un gioco stilisticamente perfetto e però sempre sfuggente.

Dialoghi, saggi e «romanzi»
Di qui vengono approcci differenti, in un flusso di ricerche ormai imponente (sarà all’orizzonte l’ennesimo Companion?). Ma non tanto la critica, quanto i testi sono al centro d el denso volume di Sotera Fornaro Un uomo senza volto. Introduzione alla lettura di Luciano di Samosata (Pàtron Editore, pp. 246, € 27,00). Un breve profilo biografico chiarisce subito quanto scarsi e inaffidabili siano i dati sulla figura dell’autore. Poi il libro ripercorre l’intera produzione, esponendo e analizzando il contenuto delle singole opere. Senza greco. Scelta comprensibile, ma che emargina un fattore centrale: la «cucina» di Luciano è fatta anche del dominio ineccepibile del greco «alto», ricalcato sui grandi scrittori attici del passato. Anche la mancanza di note erudite vuol favorire lettori non provetti, che pure incontrano venti pagine di bibliografia (e qualche refuso). La scrittura non sempre corrisponde all’intento comunicativo: propone forme come «letteratura evangelografica» o cita senza ulteriori dati lo Gnomologium Vaticanum, sventuratamente non ancora così diffuso come livre de chevet
Nella grande varietà di temi e generi praticati da Luciano (dialoghi, declamazioni, saggi, «romanzi»), si trovano molti spunti differenti. Vi è anzitutto il rapporto, affettuoso ma distaccato, con la tradizione ellenica, che egli tratta come un repertorio di racconti e di gesti riproposti con acuta intelligenza, ma irrimediabilmente «lontani». Come lontani appaiono gli dèi, le cui storie non sono oggetto di irrisione volterriana, ma di uno speciale e per noi straniante «comico divino». Una differente distanza si nota anche verso il mondo contemporaneo, irriso nelle futilità, i vizi, gli eccessi, ora con sberleffi comici, ora con sdegno. Talora Luciano ricorre alla «libertà di parola», del fool e del filosofo, servendosi di paradossali controfigure. Il cosiddetto «eroe satirico» riesce a esercitare sul mondo uno sguardo libero e disincantato, proprio perché guarda dall’esterno. Dall’alto, se si leva in cielo a riconoscere «l’aiuola che ci fa tanto feroci», o dal basso, se viaggia nell’Ade per esplorare il mondo senza maschera di finzione. Radicale è l’avversione di Luciano per la società dell’apparenza: una stortura che ha contagiato i più, travolgendo anche il mondo dei colti e la pratica dei riti. Persino la filosofia, per troppi, è divenuta sfoggio esteriore. Il mondo (al tempo di Luciano, si capisce) era pieno di festival culturali, con immancabile lectio magistralis di retori piacioni e finti sapienti. Luciano intende smascherare tali inganni: tanto più nocivi, se sulla filosofia sembrava si dovesse fondare la «cittadella interiore» che doveva difendere il singolo dai despoti e dall’instabilità del vivere. Ma anche questa risorsa appare precaria. La paideia, la cultura, non salva. Né la filosofia: nessuna setta o scuola, con la possibile eccezione del cinismo, afferra davvero la verità basilare, «il basso stato e frale» della condizione umana. La sorte, racconta il Menippo, assegna a ciascuno una parte, di re o di servo, e a proprio piacimento la muta.

Savinio, Sciascia, Pasolini
«Vien, dopo tanta irrision, la morte. E poi?». No, nessuna cupezza: Luciano non è scrittore penitenzale. Anche quando parla della «livella» che pareggia Achille e Tersite, che travolge l’imperatore al pari del mendico, che rende il teschio di Elena uguale a tutti gli altri, egli non manca di surreale umorismo, o di autoironia. Allora «tutto nel mondo è burla»? L’effetto della parodia distruttiva è che le verità ultime paiono sfuggire: alla presa debole della parola, certo, e anche a quella, creduta più salda, della ragione. Il riso quindi smaschera, ma non redime e non libera: la satira di Luciano (e quella antica in genere) non ambisce alla trasformazione del reale. Tanto meno del sociale: non greco d’origine, nativo della periferia dell’impero, Luciano doveva sentirsi o essere (o rappresentarsi?) come un outsider. Di certo, le sue pagine non istigano alla sovversione, e il suo gioco metaletterario è meno trasgressivo di quanto i moderni vorrebbero: anche verso Roma, alla quale rivolge (per maschera interposta) severe critiche moralistiche, che non fanno però di lui un «oppositore» politico.
L’autore senza volto non si lascia afferrare. Non quando impartisce lezioni sul ben vivere (ossia prepararsi a ben morire), e nemmeno quando detta, o finge di dettare, regole su come si deve scrivere di storia. Tanto meno nel più bizzarro dei suoi scritti, il finto resoconto di viaggio, dal titolo di Storia vera, dove l’unica affermazione veritiera, si chiarisce, è che il testo è interamente menzognero. Si attinge così, consapevolmente, al paradosso logico: il vero e il falso appaiono inafferrabili.
Luciano merita la definizione, nel capitolo conclusivo, di scrittore «moderno». Nel libro di Sotera Fornaro, il lettore è accompagnato da tre guide: Savinio, Sciascia, Pasolini («in questa sequenza, perché l’uno prende dall’altro»), che forniscono anche gli esergo dei diversi capitoli. Dell’autore antico, così sfaccettato, ciascuno colse i punti più congeniali: Pasolini e Sciascia furono specialmente attratti dalla libertà, dall’ironia antiautoritaria, razionalistica, volterriana. Entrambi dunque fecero di Luciano un predecessore. La loro formazione li conduceva a prendere sul serio il riso lucianeo. Forse ne sopravvalutarono la portata intellettuale: «la satira di Luciano, invece, ruota attorno al non credere, alla virtù prima di tutto socratica del dubbio».
Alberto Savinio, per parte sua, colse un’altra centrale qualità: la leggerezza. Nei suoi quadri e nelle sue prose, anche quando si evocano tragedie, ciò avviene entro un metafisico e sospeso stupore. «Nei pomeriggi d’estate, quando il sole calava all’orizzonte e sulla terra le ombre diventavano sempre più lunghe (… ) Nettuno sbarcava sul molo e andava a sedersi al Caffè Lubiè per godersi un po’ di fresco». Questo Nettuno pescatore (in Casa «La Vita», 1943) ha molto di Luciano: anche la consapevolezza dell’effetto straniante che l’ombra del passato lascia sul nostro impoetico presente, prossimo alla fine.