Disgusto nocciola
Multinazionali La monocoltura aggressiva targata Ferrero trasforma il paesaggio del Lazio e contamina terreni e acque. Il «problema» sconfina nel centro Italia e ha spinto 7 sindaci del comprensorio di Bolsena a vietare nuovi noccioleti
Multinazionali La monocoltura aggressiva targata Ferrero trasforma il paesaggio del Lazio e contamina terreni e acque. Il «problema» sconfina nel centro Italia e ha spinto 7 sindaci del comprensorio di Bolsena a vietare nuovi noccioleti
Nel 2015 la regione Lazio firmò un accordo con l’ISMEA (Istituto di servizi per il mercato agricolo) e la Ferrero Trading Lux S.A. per la concessione di 10 mila ettari di coltivazioni a nocciole da realizzare nella zona del Viterbese, dove già esistevano moltissimi noccioleti. Accordi simili erano stati stipulati nello stesso anno in Toscana e Piemonte, per un totale di 20 mila ettari, circa 10 milioni di piante. «Una bella notizia: abbiamo così realizzato un altro passo verso un’idea di modello di sviluppo che scommette sul valore del territorio e ne rinnova la tradizione», commentava il Presidente della Regione Nicola Zingaretti.
Ma adesso l’espansione dei noccioleti nel Lazio è un sorvegliato speciale. La situazione sembra essere sfuggita di mano: la zona dei Monti Cimini, nell’alta Tuscia, è stata letteralmente aggredita dai noccioleti, secondo un modello, quello della monocoltivazione intensiva, che ne ha trasformato il paesaggio e contaminato suoli ed acque. Insieme a Piemonte ed Irpinia la provincia di Viterbo è il terzo polo produttivo di nocciole in Italia, con 25 mila ettari di terreno ad esse dedicati; una tale estensione ha fatto sì che alcuni Comuni su 1.800 ettari di territorio ne hanno 1.600 piantumati a nocciolo.
IL LAGO DI VICO, BELLISSIMO SPECCHIO di origine vulcanica al centro del comprensorio dei monti Cimini fa da triste monito: le sue condizioni sono da tempo critiche a causa dell’uso ultradecennale di fertilizzanti e fitofarmaci nelle vaste aree coltivate a noccioleti in prossimità del lago, che provocano intense fioriture di cianobatteri: ovvero elevata eutrofizzazione ma anche rischio per la salute umana perché uno di essi, Plankthotrix rubescens è produttore di una microcistina classificata come elemento cancerogeno di classe 2b dall’Agenzia di ricerca sul cancro. A segnalarlo l’associazione Medici per l’ambiente che sottolinea che è già stato registrato nella zona un incremento di malattie endocrino-metaboliche,disturbi della sfera riproduttiva, immunomediate, neurologiche.
Questo perché l’agricoltura intensiva, e in particolare quella del noccioleto, prevede l’utilizzo massiccio di pesticidi, che interferiscono con gli equilibri naturali di flora e fauna e inquinano le acque; inoltre il consumo stesso di acqua è molto elevato, provocando stress idrico che impoverisce ed altera i terreni. Per non parlare della perdita di biodiversità legata alla rimozione di altre coltivazioni e le relative conseguenze su meccanismi delicati come l’impollinazione o la catena alimentare.
QUESTO PROBLEMA RISCHIA DI NON rimanere confinato fra i monti Cimini, ma di dilagare anche nella bassa Tuscia, dove i noccioleti si stanno espandendo. Il Biodistretto della via Amerina e delle forre è da tempo in prima fila nella battaglia contro questa minaccia: i suoi Comuni hanno già emesso ordinanze molto severe su alcuni pesticidi e sul glifosato.
«Fermiamo la monocoltura delle nocciole» è il messaggio che è stato lanciato a Viterbo dal presidente del bio-distretto Famiano Crucianelli e dalla dottoressa Antonella Litta in rappresentanza dei Medici per l’ambiente. Fra i destinatari dell’appello in primis la regione Lazio, a cui si chiede di non finanziare nuovi impianti di nocciole, che oltretutto vengono realizzati con i soldi dei Piani di Sviluppo rurale.
QUESTO ASPETTO METTE IN LUCE un meccanismo perverso: si tratta di contributi destinati all’agricoltura biologica della durata di 5 anni: giusto il tempo che una pianta di nocciolo impiega per arrivare alla produzione dei frutti, quando poi l’agricoltore può passare al convenzionale. Chiamata in causa anche la prefettura, a cui si chiede di ripristinare la legalità per quanto riguarda i pesticidi: dal biodistretto denunciano l’utilizzo spregiudicato e spesso in violazione delle normative italiane ed europee, pericolo confermato dal sequestro da parte dei NAS in località Monti Cimini di 7 quintali di diserbanti clandestini o fuori legge.
Infine ci si rivolge alla Ferrero, affinché l’impegno per la sostenibilità sia concreto e non solo sbandierato nei comunicati, mentre usa il territorio come fonte di materia prima in una logica estrattivista.
LA FERRERO E’ UNA MULTINAZIONALE leader nel settore delle nocciole, presente storicamente in Turchia (principale produttore mondiale di nocciole, di cui il 40% vanno alla Ferrero), e in Georgia, dove ha fagocitato la piccola produzione e messo in un angolo quella bio. Infatti gli agricoltori turchi e georgiani sono venuti lo scorso anno in Italia a protestare, con i colleghi del Bio distretto di Amerina e Valle delle Forre.
Lo storico marchio nato ad Alba, in Piemonte, oramai è una vero colosso, posseduto al 100% dalla holding Ferrero International SA, la cui sede legale si trova in Lussemburgo e la cassaforte a Montecarlo. Il fatturato nel 2018 ammontava 10,7 miliardi e la rivista Forbes ha stabilito che Michele Ferrero, nipote del fondatore dell’azienda, Pietro Ferrero, è l’uomo più ricco d’Italia, e il 30esimo al mondo. Costantemente alla ricerca di nuovi territori per ampliare la riserva di nocciole che sta alla base del suo prodotto più famoso, la Nutella, la multinazionale ha creato una divisione interna, la Ferrero Hazelnut Company. Presto anche paesi come Serbia e Cile vedranno nascere estese monocolture di nocciole. In Italia la cavalcata della monocoltivazione a noccioleto continua attraverso il Progetto «Nocciola Italia» lanciato nel 2018, con l’obiettivo di portare gli ettari nazionali di corileti dai circa 70 mila attuali a 90 mila in 5 anni, un incremento della produzione del 30% con un espansione anche fuori dalle regioni classiche Lazio, Campania, Piemonte, Sicilia. In questo senso va l’accordo sottoscritto dalla regione Umbria per la «messa a nocciolo» di 500 ettari di terreno, con uno stanziamento di 2,6 milioni di euro dai fondi europei per l a sviluppo rurale.
E ALLORA LA PREOCCUPAZIONE TRAVALICA i confini della regione Lazio e raggiunge l’altopiano dell’Alfina, una distesa di morbide colline fra Umbria, Toscana e Lazio in mezzo alle quali sonnecchia il Lago di Bolsena. Primi ad allarmarsi un movimento locale di cui una delle portavoci è Alice Rohrwacher, che in quelle terre oltre a vivere ha girato anche due dei sui film. In una lettera aperta direttore de la Repubblica la regista ha espresso la sua preoccupazione per un fenomeno che definisce «pervicace» nello spazzare via i diversi elementi del paesaggio per far spadroneggiare impianti di nocciole a perdita d’occhio e che solleva domande su quali saranno le conseguenze di un modello così aggressivo. Dalla collaborazione fra le realtà dell’Alfina e quelle del biodistretto è scaturito un partecipatissimo convegno svoltosi a marzo nella città di Orvieto sui rischi delle monocoltivazioni intensive ma anche sulle positive esperienze di resistenza a questo modello. Il messaggio deve essere passato perché ora ad associazioni, comitati e movimenti si è unita anche la politica locale che non ci sta. Sette sindaci del comprensorio di Bolsena che hanno davanti agli occhi l’esempio del lago Vico non vogliono che quello di Bolsena faccia la stessa fine e pochi giorni fa hanno emesso delle ordinanze che vietano la realizzazione di impianti di noccioleti intensivi all’interno del bacino imbrifero del lago. Un’iniziativa attaccabile giuridicamente in quanto interferisce con il diritto dei privati di fare del loro territorio ciò che vogliono dal punto di vista economico, ma al contempo un segnale politico utile alla sensibilizzazione sul tema dei costi ambientali e sociali del profitto, dalla quale non è più accettabile sfuggire.
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