Che i voti non si possano solo contare ma si debbano anche pesare è una massima in politica sempre valida. Contati o pesati, i voti raggranellati da Forza Italia dicono sempre la stessa cosa: sconfitta secca e conseguente allarme rosso. Così non va. Al conto, il centrosinistra risulta in vantaggio netto, e se deve leccarsi alcune ferite lancinanti è per colpa dei pentastellati molto più che degli azzurri. Al peso è peggio che andare di notte, perché quella di Pavia è una sconfitta che vale più di tutti gli scarni successi messi insieme. Perché Pavia è il nord, il cuore di un sistema di potere berlusconiano che ormai non c’è più. E perché a Pavia era candidato Alessandro Cattaneo, il volto nuovo, il cavallo vincente su cui l’ex cavaliere puntava a man bassa. Infine perché la vittoria era data per certa. Se si aggiungono i flop di Bergamo e Cremona, la percezione della disfatta si fa completa. Lo stesso Toti la ammette: «Esiste una questione settentrionale. Bisogna intervenire subito». Che per il padanissimo Silvio il nord, da fonte del potere, sia diventato un cruccio dice tutto.

E’ vero, c’è Padova, ma quella di Bitonci più che di Berlusconi è una vittoria della Lega, che conferma il trend in ascesa delle europee. Certo, il gran capo prova a riconsolarsi raccontando di averci visto giusto, e l’esito imprimerà per forza ulteriore slancio alla sua strategia per il futuro, che è poi identica a quella del passato. Avanti a braccetto con i padani, e se al posto di Bossi c’è ora Salvini poco male. Ma è una consolazione magra, tanto più che anche a Potenza, altra piazza conquistata, il cavallo vincente, Dario De Luca, è targato FdI, mica Fi.
Dal fortino sempre più assediato di Arcore, il generalissimo fa trapelare umori meno cupi del previsto: «Bene non è andata, però poteva andare pure peggio». Ottimismo d’ordinanza: il bicchiere è per tre quarti vuoto e Berlusconi lo sa perfettamente. Sommati alla disfatta europea, i ballottaggi dicono a lettere cubitali che entrambe le strategie a cui Arcore si era affidata negli ultimi mesi hanno mancato l’obiettivo. Il rinnovamento di facciata non ha ingannato gli elettori. Toti non è il Renzi di destra, e non lo sarà mai. I club sono stati un colpo a vuoto. Fi viene vissuta, soprattutto nel “suo” nord, come un partito vecchio e incapace di tenere il passo con il cambiamento. Inoltre, la strategia double face nei rapporti col governo, opposizione formale ma alleanza sul fronte delle riforme, non è stata letta e sentita come prova di responsabilità ma di pura e semplice ambiguità, quella “terra di mezzo” dalla quale, in politica, si esce sempre con le ossa rotte.

Erano entrambi fronti già bollenti e densi di polemiche al vetriolo nel partito azzurro. La mazzata li renderà ancor più turbolenti. Oggi si riunirà a Roma l’ufficio di presidenza. Dovrebbe parlare solo di approvazione del bilancio (con i fondi che per la prima volta scarseggiano), ma evitare che si riattizzi l’eterna polemica tra i dirigenti all’arrembaggio guidati da Fitto e un “cerchio magico” provato dalla sconfitta non sarà facile. Il signore pugliese delle preferenze giura di voler evitare polemiche e ha annullato la sua manifestazione a Napoli per il 13 giugno. Andare in piazza nello stesso giorno in cui, nella medesima città, manifestava anche Toti sarebbe stato un po’ troppo. Ma al braccio di ferro sulle primarie non rinuncia, e i sondaggi della Ghisleri gli danno ragione: la «legittimazione dal basso dei dirigenti» la reclamano anche gli elettori azzurri.

L’orizzonte delle riforme è coperto da nuvoloni altrettanto scuri. Le fedelissime del capo, a partire da Daniela Santanchè, hanno già aperto il fuoco: «Chi sta nel limbo perde». Stasera dovrebbe riunirsi il gruppo di palazzo Madama e sulla carta il no alla proposta Renzi sul Senato (ribadito da Toti) dovrebbe essere certo. Ma Verdini non concorda e con Berlusconi, spaventato oltretutto da possibili rappresaglie sul fronte della giustizia, non si può mai dire.