Forse, e non soltanto per i credenti nella vita ultraterrena, la morte non è la fine della vita. Anche per i non credenti, la persona cara che muore resta vicina e presente, in un ricordo struggente e dolce insieme, che attenua quella perdita, quella dipartita senza speranza di ritrovarsi, facendola invece apparire come un distacco non incolmabile da colui o da colei che resta in vita».

Sono parole di Giuseppe Prestipino, che si è spento a Civitavecchia la mattina di mercoledì 16 settembre, nella sua casa luminosa affacciata sul mare, e davanti al mare siciliano di Giojosa Marea era nato. Parole che paiono rivolte a lenire il dolore, che ci sembra di ascoltare dette nel timbro di quella voce dall’elocuzione suadente. Si leggono in un piccolo libro, Frammenti di vita ingiusta, stampato in cento copie non venali, offerto al filosofo da allievi e sodali nel 2012, in occasione del suo novantesimo compleanno.

Il libro accoglie cinquantadue stringate meditazioni: «esercitazioni per un collage di brevi lamenti (a motivo di sconforto), scrive Prestipino nella Premessa, suggeriti da trame o, più spesso, da brani di racconti, leggende e opere letterarie in genere largamente conosciute, classiche nel significato minimale di opere durature, ossia conoscibili con pregnante diletto intellettuale anche dalla posterità». Chi abbia avuto occasione di incontrare Prestipino nel corso degli anni della sua lunga vita, il collega negli studi o lo studente, il compagno nell’impegno politico o l’interlocutore nel dibattito delle idee (e non si dica di chi ha avuto il privilegio di averlo amico ed ora lo piange) avrà d’un tratto, nell’apprendere della sua morte, avvertito viva la presenza dell’uomo dai modi impeccabili, la sua discrezione animata da una passione intellettuale coltivata senza ostentazioni, alimentata nella fedeltà a sentimenti che intuivi tanto forti quanto rattenuti, custoditi con assidua cura, ma tenuti lontano da esibizioni superflue.

Il ‘breve lamento’, dal quale ho tratto la citazione che apre questa nota, porta il titolo Partire morire soffrire, dove quel ‘partire’ non sta in funzione metaforica. Designa precisamente l’atto dell’effettivo andar via, dell’allontanarsi, del separarsi in vita. Medita sul dolore che semina la morte Prestipino, qui nelle righe di Partire morire soffrire, ma lo ragiona a fronte dei dolori che non ci provengono dalla ‘matrigna’ natura, che ci sono inflitti invece, più lancinanti sofferenze, dalle ingiustizie recate all’uomo dagli uomini.

Un ragionare il suo che consente, spero, a me che stendo queste righe, di indicare al lettore una delle motivazioni che stanno all’origine delle ricerche del filosofo. «In un’epoca di migrazioni più che ‘bibliche’, scrive Prestipino, mi chiedo se la morte della persona più cara sia la causa del maggior dolore dell’animo umano». E constata: «vi sono oggi, nei paesi africani, latino-americani e anche asiatici, tante madri in tarda età che non vedranno mai più i loro figli emigrati in terre lontane. Li piangono più acerbamente che se fossero morti?».

Considera, infine: «forse è più amaro sapere che la persona cara vive ancora sulla terra, ma in un paese lontano dal quale non farà più ritorno e nel quale non potrà mai essere raggiunta da chi la ama e, per vecchiezza o malattia o povertà o altro impedimento, deve trascorrere i suoi giorni, sino alla fine, nel suo sventurato suolo natìo». Torno alla Premessa, dove Prestipino avverte che «a un lettore fiducioso nel ‘sol dell’avvenire’, la lettura di questi frammenti potrebbe far vacillare la sua fiducia. E non vorrei che, se ci fosse in lui, o in lei, la più timida speranza di salvezza potesse perderla».

Un timore forse non infondato, ma eccessivo se quel lettore, nel ‘breve lamento’ intitolato Soffrire morire per vivere e sperare, trova scritto: «non può esservi speranza nel futuro senza la tristezza e l’amarezza, o lo sdegno, per la condizione presente del vivere e del soffrire». Più di una volta con Valentino Parlato, che lo ebbe maestro a Tripoli, io che lo avevo collega a Siena, ci siamo detti che questo era il Prestipino che amavamo.