Si è concluso lo scorso fine settimana il 31esimo Tokyo International Film Festival, un’edizione di discreto livello e che ha anche riservato qualche soddisfazione per il cinema italiano. Fra i film in competizione infatti Il vizio della speranza ha portato a Edoardo de Angelis il premio come miglior regista e a Pina Turco quello per la miglior interpretazione. Amanda di Mikhael Hers si è aggiudicato invece quello come miglior film, e il danese Before the Frost il Premio speciale della giuria.

AMBIENTATO nella campagna danese a metà del 1800, il film è un ritratto poetico ma allo stesso tempo molto realistico della povertà di una famiglia di contadini e del fortissimo desiderio del padre di far sposare la propria figlia con un ricco proprietario terriero svedese, e quindi di abbandonare la classe a cui appartiene.
Fra i registi premiati anche il giapponese Masaharu Take, che alcuni anni fa aveva stupito con l’energetico 100 Yen Love e che al festival ha portato il suo nuovo lavoro, The Gun. In un bianco e nero a tratti stilizzato il film descrive la discesa agli inferi della psiche di uno studente universitario che per caso trova una pistola vicino a casa sua.

L’ARMA, che in Giappone è una rarità, permette al ragazzo di dare un senso alla propria vita ed al vuoto che altrimenti la alimenta. Ritorna in mente molto cinema di Shin’ya Tsukamoto, non solo per l’uso del bianco e nero ma anche per l’ossessione per l’arma capace di portare dei cambiamenti, drastici e tragici, nella vita del protagonista. Così come è abbastanza chiaro l’omaggio ai classici del noir: la pioggia, i protagonisti che fumano in continuazione, il detective freddo e disincantato sono alcuni dei migliori elementi del lungometraggio. La psiche del ragazzo poco a poco discende nel caos, rivelando le ferite con cui è cresciuto, in un orfanotrofio, dopo essere stato abbandonato dalla madre.

E anche il film, con il passare dei minuti, acquista un tono anarchico e caotico liberandosi, specialmente nel finale, della patina del già visto e di situazioni abbastanza scontate per diventare visivamente più complesso e quasi cacofonico.
Una delle sezioni che in molte edizioni ha riservato più di qualche bella sorpresa per cinefili e appassionati è Cross Cut Asia, dedicata alla vasta e diversa cinematografia del continente asiatico. Quest’anno l’idea di fondo era quella di esplorare le immagini provenienti dal sud est asiatico da un’ angolatura diversa, sondando come la musica prodotta e suonata in quelle zone si incroci spesso con i sommovimenti sociali e politici.

FRA I FILM presentati c’è In the Life of Music, una storia di amore e guerra in Cambogia raccontata attraverso una delle più popolari canzoni del paese. Le stesse tematiche sono esplorate anche in Don’t Think I’ve Forgotten: Cambodia Lost Rock&Roll, documentario uscito nel 2015, ma che rimane un piccolo capolavoro di cinema documentario d’archivio. Il regista John Pirozzi infatti riesce a scavare negli archivi sonori e visivi del Paese e mettere insieme il pop colorato e l’energia del rock cambogiano prodotto fra gli anni ’60 e ’70, con i bombardamenti americani e la tragedia dell’arrivo della dittatura di Pol Pot.

NELLA STESSA sezione anche Respeto, del filippino Treb Monteras II, forse uno dei migliori film del festival. Raccontando la scena hip-pop del paese asiatico attraverso il giovane Hendrix, il lungometraggio tocca molti dei nervi scoperti dell’arcipelago, dalla povertà che affligge le nuove generazioni, alla donna spesso usata come sfogo di violenze o come merce di scambio, fino al passato della dittatura di Marcos ancora dolorosamente presente.
In un’altra sezione ma in linea con la tematica musica/cinema, l’indiano Madras Beats è stato una piccola rivelazione.

Musical che in tutto e per tutto si inserisce nel filone del cinema contemporaneo del paese, il film di Rajiv Menon è ambientato nella zona sud-orientale dell’India, famosa per la musica religiosa carnatica. La trama è classica nelle sue premesse: il figlio di un costruttore di percussioni desidera a tutti i costi diventare un musicista, e sfida il sistema delle caste ed il tradizionalismo che innerva la musica sacra indiana. Quasi una sorta di fiaba per i luoghi comuni che attraversa – l’amore, il viaggio iniziatico alla scoperta di se stesso e delle musiche nel resto dell’India, l’inevitabile lieto fine – il film però è una gioia per gli occhi e impressiona per il senso di freschezza e di energia che riesce ad esprimere.