Il governo avrebbe dovuto, e potuto, garantire «quella unitarietà di azione che la dimensione nazionale delle emergenze imponeva e tutt’ora impone». Se non lo ha fatto non è stato perché le leggi e la Costituzione garantiscono troppo potere alle regioni. Ma perché lo stato centrale si è sottratto a «un esercizio forte del potere di coordinamento e di correzione delle inefficienze regionali». In questo modo non solo ha esposto tutti i cittadini a «rischi di disomogeneità», ma ha consentito una lesione – quanto drammatica lo abbiamo visto – «degli stessi livelli essenziali delle prestazioni». Al centro della relazione annuale del presidente della Corte Costituzionale c’è questa pesante critica al modo in cui l’autorità centrale ha gestito l’emergenza. La responsabilità del caos non è stata solo, e neanche tanto, dei «ribellismi» dei presidenti di regione, della loro «voglia di protagonismo». Ma del governo che si è ritratto dalle sue responsabilità.

Nella critica alla timidezza del governo, Giancarlo Coraggio può richiamare innanzitutto la recente sentenza con cui la Corte che ha bocciato la legge regionale della Val d’Aosta che voleva fa da sé sulle riaperture. Non nega il presidente che all’origine di una parte dei problemi ci sia la riforma «non brillante» del Titolo V (centrosinistra, 2001), ma non pensa che sia il caso che il parlamento si imbarchi in una modifica: «Sono contrario a interventi continui, dopo vent’anni siamo avviati a un assestamento». Sono altre le riforma costituzionali che si sente di consigliare per rimediare «all’abuso dei decreti legge» e al «monocameralismo di fatto, entrambe «risposte un po’ all’italiana a problemi reali».

Molto spazio nella relazione, e nella successiva lunga conferenza stampa, Coraggio lo dedica alla giustizia. Con grande attenzione alla cultura delle garanzie. «Era ora che l’Italia recepisse la direttiva Ue sulla presunzione di innocenza», dice in riferimento a un recente e non indolore passaggio parlamentare. Perché «la gogna mediatica è inaccettabile – aggiunge a proposito dei limiti alle conferenze stampa dei magistrati inquirenti previsti nella direttiva – mi auguro che lentamente si possa creare una cultura effettiva della presunzione di innocenza». Sul tema il presidente è attento anche quando gli viene chiesto della prescrizione della pena a carico di due dei condannati per terrorismo arrestati e ricercati in Francia, «non esiste un diritto alla fuga, ma queste persone sono soggette tanto alla legge quanto ai principi della nostra Costituzione e dunque al fine rieducativo della pena». Sul tema il presidente deve naturalmente rispondere alle domande sulla recente sentenza che ha accertato la incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, ma ha rinviato la sanzione effettiva di illegittimità dando un anno al legislatore per bilanciare le esigenze della lotta alla mafia. «Bisogna riformare tutto il sistema, è inevitabile che sia previsto un fine pena anche per l’ergastolo», dice con chiarezza. Ma non ritiene che sia sbagliato lasciare circa 1.200 persone, gli ergastolani “ostativi”, sotto il peso di una norma già individuata come incostituzionale in attesa di un intervento del parlamento che non è detto arriverà. «Dev’essere chiaro che questi ergastolani non hanno ancora maturato il diritto agli sconti di pena previsti per gli altri detenuti fino a quando non ci sarà la nostra sentenza finale», spiega. E nel frattempo il problema «lo abbiamo scaricato», riconosce, sui giudici che «nella loro saggezza dovranno gestire le sofferenze inevitabili di questa fase intermedia».

Ad ascoltare Coraggio c’erano – assieme al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio, alla presidente del senato e al presidente della camera – anche due suoi predecessori alla guida della Corte costituzionale. La oggi ministra della giustizia Marta Cartabia e l’ex presidente Giorgio Lattanzi, al quale proprio Cartabia ha affidato le proposte di riforma del processo penale. Anche di questo parla Coraggio, perché tra le idee di Lattanzi e Cartabia c’è quella di impedire al pubblico ministero la possibilità di appellare le sentenze di primo grado, siano esse di assoluzione o di condanna. Eppure la Corte costituzionale è già intervenuta due volte per dichiarare illegittima una legge – la “legge Pecorella” – che nel 2006 aveva legato le mani al pm nel solo caso di assoluzione in primo grado. Com’è possibile aggirare quel vincolo? È possibile, spiega Coraggio, perché la Corte aveva sanzionato la rottura di una «tendenziale simmetria» tra accusa e difesa. Non era lecito, cioè, impedire l’appello solo al pm, mentre si potrebbe «pensare di intervenire per limitare le possibilità di entrambe le parti nel processo». Che è esattamente quello che la ministra della giustizia immagina di fare con un emendamento in arrivo la prossima settimana. Infine il presidente della Corte costituzionale, che è stato a lungo alto giudice amministrativo e anche presidente del Consiglio di stato, boccia la proposta di Luciano Violante, abbracciata invece proprio ieri dal Pd, di togliere alla giustizia amministrativa la competenza sui ricorsi dei magistrati contro le decisioni del Csm per affidarla a una “Alta corte”. Malgrado l’esito del caso Prestipino-procura di Roma e il conseguente subbuglio nel primo ufficio inquirente d’Italia, per Coraggio l’idea è «strana». «Non si vede perché un giudice amministrativo che può decidere sui fatti rilevanti della vita di ognuno di noi non possa farlo anche per quello che riguarda un magistrato. Sarebbe ingiusto nei confronti di tutti gli altri cittadini».