Nel suo studio americano, lasciata ormai la Germania dei furori nazisti alle spalle, il grande pittore e docente Josef Albers allineava più di ottanta sfumature di giallo. Ma l’artista non si riteneva soddisfatto: erano troppo pochi per poter catturare, una volta per tutte, quella «discrepanza tra fatto fisico e effetto psichico» che è insita in ogni soggetto cromatico che attraversi il nostro sguardo. Proprio lui aveva dedicato l’intera vita a cancellare dai suoi studenti qualsiasi idea preconcetta: nessun colore esiste da solo, ognuno è influenzato da ciò che ha intorno e dalla disposizione d’animo con cui lo percepiamo.
IL COLORE È VIVO, mutante, alieno all’imbrigliamento nei fenomeni ottici, è più emotivo che razionale. Per Kandinskij, a ogni pigmento corrispondeva un suono e un sapore, una vibrazione dell’anima. Sonia Delaunay, maga dei tessuti dipinti, affrontava la campitura cromatica della stoffa come fosse un set teatrale dinamico, una danza delle forme: su quella superficie da indossare, tra cerchi, triangoli e spirali, avvenivano baruffe e si dispiegavano magnetici amori. I suoi vestiti parlavano un linguaggio intriso di luce e ritmo.
LA LIBERTÀ un po’ selvaggia del colore si riverbera anche nei trattati ottocenteschi per aspiranti pittori, mentre dalle ipnotiche tavole che elencano le sfumature degli acquerelli disegnate da Ranaldi si arriva al poetico abecedario dei colori, che spesso sfoggiano nomi legati a leggende: si va dal «sangue di drago» – lacca di un intenso rosso che si favoleggia nacque dalle ferite di guerra tra un elefante e un drago mentre i loro liquidi zampillanti si mescolavano – al blu oltremare tratto da un minerale, raccontato da Marco Polo nel 1271 nel suo viaggio verso la Cina.