Restano ormai Giorgio Azzolini (1928) e Gianni Coscia (1931) i soli «grandi vecchi» di quell’italian jazz che furoreggia nell’immediato dopoguerra, che impazzisce per le turbolenti vicende dei bopper a New York, i quali, occhiali scuri anche di notte, spalle al pubblico, improvvisano furiosamente nei piccoli club fregandosene del pubblico borghese e simpatizzando solo con i poeti beat: un immaginario stimolante per la generazione nostrana che, Piana in testa, nell’arco di vent’anni, acquisito il bop di Parker e Gillespie, passerà dalle eteree atmosfere cool ai roventi messaggi free, non senza la convinta adesione al di poco antecedente hard bop quale linguaggio espressivo adattato quale koiné europea in grado di dialogare ormai alla pari con gli improvvisatori americani sia neri sia bianchi. In tal senso la vicenda umana e professionale di Dino Piana è esemplare come egli stesso ci ha rivelato, poco prima della sua scomparsa, avvenuta lo scorso novembre, con la modestia di sempre che contraddistingue gli artisti autentici. Contento, anzitutto, di essere appunto il decano del jazz italiano: «Mi sento fortunato, sono ancora curioso, mi piace suonare, studio il trombone tutti i giorni e faccio qualche concerto con mio figlio Franco come quello di giugno alla Casa del Jazz con la nostra Big Band per ricordare il grande Maestro e amico Armando Trovajoli».

Tutto comincia da un borgo del Monferrato astigiano: «Ho iniziato a suonare la tromba nella banda di Refrancore, il mio paese, ero così piccolo che non riuscivo a tenere il passo degli altri musicisti, poi dopo gli anni difficili della guerra sono passato al trombone a pistoni e ho iniziato a suonare un po’ dappertutto. Durante una serata in un dancing ho conosciuto Gianni Coscia e siamo diventati amici fraterni. Proprio grazie a lui abbiamo formato il Quintetto di Torino e ci siamo iscritti alla Coppa del Jazz 1959-’60 della Rai. Fu un grande successo, arrivammo secondi dietro al quintetto di Gil Cuppini e io vinsi il premio come miglior solista».
A quel punto Dino è un trombonista richiestissimo nel mondo del pop allora in pieno boom: «Tutti mi volevano ma l’esperienza per me più importante fu entrare a far parte del Basso-Valdambrini Quintet, una vera scuola. Ho poi collaborato con tanti musicisti italiani e ho avuto il privilegio di suonare con i migliori jazzisti americani: Chet Baker, Gerry Mulligan, Maynard Ferguson, Kay Winding, Slide Hampton, Thad Jones, Mel Lewis, George Coleman, Charlie Mingus. Cosa desiderare di più? Ogni tanto ripenso a queste importanti esperienze e mi sembra un sogno».

Anche all’estero il nome del trombonista viene spesso ricordato come elemento aggiunto al celebre quintetto che diventerà Basso-Valdambrini Sextet oppure Plus Dino Piana, in lp memorabili nei primissimi Sixties: «Se ripenso a quei dischi mi vengono ancora i brividi, gli arrangiamenti di George Gruntz erano difficili e molto articolati, fin qui niente di strano, il problema era che io non leggevo una nota di musica. Ricordo ancora le nottate trascorse a casa di Oscar (Valdambrini, ndr) a imparare i brani a memoria, è stato difficile e anche loro si stupivano del mio orecchio musicale, però ce l‘ho fatta e non finirò mai di ringraziare Gianni (Basso, ndr) e Oscar musicisti e persone straordinarie!».

Ormai trentenni, i protagonisti di allora del jazz italiano, nonostante l’arrivo di tante canzonette commerciali, vivono intensamente una bella stagione: «Ogni concerto era una gioia, la passione e l’entusiasmo erano grandi, alla Taverna Messicana di Milano si provavano i nuovi arrangiamenti per poi proporli nei concerti o ai festival. C’era un grande fermento, certo i telefonini non esistevano ma c’era una forte comunanza e condivisione d’intenti. Si facevano arrivare i dischi dall’America e si trascrivevano gli arrangiamenti, l’ascolto era fondamentale così come il desiderio di capire e imparare».

Anche quando il jazz diventa una musica di massa, soprattutto grazie ai giovani che invadono Umbria Jazz o altre manifestazioni, gli ormai quarantenni alla Dino Piana non soffrono la concorrenza delle nuove leve, schierandosi anche idealmente con l’intero arco della sinistra italiana che, per la prima volta, sgombrando il campo dal vetero-stalinismo apre alla modernità culturale: «Certo rispetto agli anni Sessanta, dove il jazz era una musica di nicchia, il fatto che sia diventato più aperto ai giovani è stato un fatto positivo, inoltre in quegli anni si sono formati molti musicisti che poi si sono rivelati molto importanti per il jazz italiano».
In tale contesto iniziano a uscire album epocali dei quali chiediamo un ricordo: «Non è facile, però ricordo con grande piacere, oltre i 33 giri, con Basso-Valdambrini, ad esempio Jazz Flamenco con Pedro Iturralde e Paco De Lucia, Duo Bones cofirmato con Kay Winding, il lavoro con il grande Charlie Mingus, Al gir dal bughi con l’amico Enrico Rava e mio figlio Franco e poi i recenti quattro cd del Dino e Franco Piana Ensemble».

Tanti sono gli aneddoti derivanti dagli incontri con i maestri del jazz americano: «Il primo ‘grande’ che incontrai è stato Chet Baker, eravamo al Bussolotto di Forte dei Marmi ed era la mia prima esperienza importante. Chet non venne alle prove, così noi preparammo un’ipotetica scaletta di una ventina di brani, lui arrivò con molto ritardo, vide l’elenco dei brani, annui e iniziò a suonare Tune Up, che naturalmente non era in scaletta, a una velocità pazzesca… io pensai: iniziamo bene! Poi per fortuna si ravvide e la serata si concluse senza altri problemi». Meno ardua l’impresa con un collega del trombone, celeberrimo per i tanti album firmati Jay & Kay, ossia con Jay Jay Johnson tra gli inventori del bebop nel sestetto di Parker e Gillespie, così come Winding suona nelle big band di Benny Goodman e Stan Kenton. Con Kay Winding ho appunto inciso Duo Bones: mi sentì suonare e mi volle per una lunga serie di concerti, fu una grande esperienza con un musicista eccezionale e una persona per bene, un vero amico. Qualche anno dopo fui chiamato a far parte della Jazz Orchestra Europea di Thad Jones chiamata The Ball of Fire. Thad ci venne incontro abbracciandoci con grande cordialità, pensai: ‘Però non è poi così burbero’. Ce ne accorgemmo alle prove… la sezione delle trombe era esausta, però la musica era stupenda. E quindi l’incontro con il grande Charlie Mingus».

Certo, evocare la collaborazione con uno dei padri nobili (anche se come tale riconosciuto solo di recente) non solo del jazz contemporaneo ma pure della musica del Novecento è una reminiscenza straordinaria: «Fui chiamato da Filippo Bianchi: ‘Dino vieni subito che bisogna registrare le musiche del film Todo Modo, il Maestro è il più grande contrabbassista del mondo: Charles Mingus!’. Conoscendo il carattere di Mingus fui molto incerto nell’accettare, ma mia moglie mi convinse. Entrai in studio e mi trovai tutto il suo gruppo schierato, salutai e guardai subito le parti, erano molto impegnative. Entrò Mingus con il cappellone e un grande sigaro in bocca, salutò e staccò il tempo. Di colpo mi trovai immerso in una musica stupenda, con colori e timbri ellingtoniani, un’emozione indescrivibile. Mingus mi guardò, era soddisfatto, a un certo punto mi fece segno d’improvvisare, presi la ‘plunger’, chiusi gli occhi e suonai. Alla fine del brano Mingus mi venne incontro e mi abbracciò, non riuscivo a crederci… un’esperienza indimenticabile e commovente».

Ma che cosa le dice ancora il jazz a 93 anni: «La musica mi tiene in vita, quando a volte la lampadina si spegne, arriva mio figlio con un nuovo progetto e la luce si riaccende».

LA BIOGRAFIA
Il 6 novembre 2023 ci lascia Dino Piana, nella propria casa romana, lui monferrino doc dall’astigiana Refrancore, dove nasce il 3 agosto 1930: trombonista, compositore, band leader, fin da giovanissimo fa parte di un manipolo di ragazzi, piemontesi e lombardi, che, per lasciarsi alle spalle guerra, fascismo, dittatura che, fino all’ultimo, agisce in maniera stupida e ossessiva persino nei divieti culturali (musica compresa), scelgono il jazz come musica di libertà. Non solo la storia degli schiavi liberati che inneggiano a dio al ritmo dello spiritual o descrivono la dolente realtà con le secche note del blues rurale, ma anche il moderno incarnato da Chet Baker e Gerry Mulligan, da Sonny Rollins e Horace Silver, da Ornette Coleman e Charles Mingus. Dino in particolare rivolge l’attenzione ai solisti del proprio strumento come Jay Jay Johnson, Kay Winding, Curtis Fuller, incidendo dischi memorabili dal primo Così (1962) all’ultimo Al gir dal bughi (2021), passando attraverso il trittico di metà Settanta Jazz a confronto 34, Quelli della TV, «Two Bones» (con Winding).