Adesso che Pedriali se ne è andato si scoprono gli ‘amici’, quelli che ‘era il migliore, quanto deve aver sofferto’, in una ridda di dichiarazioni spesso farisaiche. Se l’è portato via un tumore alla gola di cui soffriva da anni e che gli aveva regalato la voce roca che lo connotava.

Pedriali era un grande fotografo e non ci fa velo, nel dirlo, il momento di commozione che accompagna colui appena imbarcato sul traghetto di Caronte. Aveva fotografato Fellini, Moravia, Warhol, Nureyev ma questo dice poco in sé; Ferrara e Genova, solo per fare degli esempi, gli avevano tributato un onore inusuale nell’accogliere sue mostre rispettivamente a Palazzo dei Diamanti e a Palazzo Ducale. Una sua mostra alla Fondazione 107 di Torino era passata, colpevolmente per i critici, sotto silenzio ma i nudi esposti in quell’occasione uguagliavano se non superavano il superbo edonismo di Mapplethorpe.

Era stato assistente di Man Ray e la loro frequentazione, quando l’artista dimorò per un lungo periodo a Fregene, fu assidua ed estremamente formativa. Aveva da poco conosciuto Pasolini e Pier Paolo, saputo del rapporto, chiese di farsi portavoce presso Man Ray di una richiesta: una tela, una costruzione, un collage quale che fosse che illustrasse il Petrolio cui lo scrittore andava lavorando. Per effettiva mancanza di tempo, probabilmente per impegni gravosi che aveva già assunto o, più prosaicamente, per un misunderstanding Man Ray glissò ed ecco allora prendere corpo l’idea di un servizio di nudo. Il servizio che fu fatto nella casa di Chia sarebbe stato pubblicato a corredo del romanzo. Si accordarono su come procedere. Dovevano sembrare scatti rubati. Pasolini sdraiato nudo sul letto che sfogliava un libro poi, come messo sull’avviso da un rumore sospetto, si alzava e cercava di sbirciare al di qua dell’ampia vetrata che dava sul giardino. Una sorta di messa in scena che voleva significare, nelle intenzioni, la perdita improvvisa di un Eden violato dal peccato.

Pochissimi sanno che Pedriali era stato una promessa del ciclismo, sport che vedeva come professionistico, e che fu Campione d’Italia di velocità su pista nella categoria esordienti, nei tardi anni ’60 (una volta gli si ruppe la sella e continuò la corsa in soupplesse).

Una volta, nel ’98, aveva dato vita ad una singolare protesta: tappezzò Palazzo Braschi, proprio all’angolo col Pasquino, di sue foto alternate a poesie di Silvio Parrello inframmezzate a loro volta di una denuncia feroce dei metodi investigativi che avevano portato a mezze verità sulla morte di Pier Paolo. Per questo fu pesantemente minacciato.

Eppure, faremmo torto all’intelligenza e alla persona di Pedriali se non cercassimo di scandagliare il suo lato oscuro, se facessimo di lui solo una inopportuna sancta sanctorum. Negli ultimi anni l’abuso di cocaina lo aveva reso irascibile e, a volte, inaffidabile. Parrello gli chiese conto dello smantellamento della ‘mostra’ sui muri di Palazzo Braschi, ne nacque un diverbio acceso e Pedriali, afferrata l’asta di metallo che serve a movimentare una saracinesca, gliela diede in testa provocandogli una commozione cerebrale.

Ci si vedeva qualche volta con altri amici e apprezzò particolarmente una considerazione che avevo fatto sul delitto; accettò di buon grado un appuntamento per parlarne ma quando lo chiamai per fissare mi vomitò addosso improperi irriferibili e minacciò, se avessi continuato ad ‘importunarlo’, di spararmi. La volta successiva non ricordava più nulla. Ci riferì che «Lampi sull’Eni» esisteva per davvero per avere egli stesso visto il fascicolo (si espresse proprio così: fascicolo) sul tavolo di lavoro dello scrittore nel buen retiro viterbese. Per timore reverenziale (non riuscì mai a dare del ‘tu’ al suo ospite), per non sembrare invadente non osò toccare quelle pagine anche perché solo dopo la morte si sarebbe saputo della sua importanza.

Pasolini aveva fatto per il fotografo un doppione di tutte le chiavi; di Chia, di Sabaudia, di via Eufrate. Qualcuno cercò di ricollegare il dato al fatto che la cassaforte della casa romana era stata violata ma senza segni di effrazione. Narrano che le pizze di Salò, prima di essere rinvenute in un prato, giacessero in una buca scavata nel suo giardino. Ma fu altrettanto certo che lui non sapesse del contenuto di quel sacco lasciato a ‘decantare’ nella terra. E qui arriviamo al dato più angosciante dell’histoire.

Pedriali avrebbe dovuto consegnare le stampe allo scrittore nella mattinata del 2 novembre. Il padre Sergio, impiegato nei Servizi, gli ingiunse di partire immediatamente per il nord perché qualcosa di terribile stava per accadere. Dino rientrò a Torino il primo.

Pedriali rimane un artista enorme nel campo della fotografia ma anche un testimone del tempo che provò per la morte del suo mentore un rimorso insopprimibile. Affogando nei paradisi artificiali una incapacità strutturale, congenita di testimonianza.