‎«Con voi italiani non ci parlo» ci dice sorridendo Mordechai Vanunu ‎incontrandoci per strada a Gerusalemme Est, la zona palestinese, dove l’ex tecnico ‎nucleare israeliano vive dal 2004, da quando è uscito, dopo 18 anni, dal carcere ‎di Shikma. Scherza Vanunu ma fino ad un certo punto. Le condizioni del suo ‎rilascio gli impongono da 14 anni di non dare interviste e neppure di parlare ai ‎giornalisti. Altrimenti tornerà in prigione e i giornalisti stranieri saranno subito ‎espulsi. E dell’Italia Vanunu non può certo avere una buona opinione. Nel 1986 il ‎Mossad lo attirò in una trappola a Roma e da lì lo portò con la forza a Tel Aviv ‎interrompendo le clamorose rivelazioni stava facendo al Sunday Times ‎sull’atomica israeliana. Un rapimento sul quale l’Italia ha indagato molto poco ‎preferendo nascondere sotto il tappeto l’accaduto in nome dei buoni rapporti con ‎Tel Aviv. Roma, come le altre capitali occidentali, non ha mai avuto alcuna ‎intenzione di proteggere l’uomo che ha svelato al mondo le produzioni atomiche ‎militari nella centrale di Dimona e il possesso da parte di Israele di ordigni ‎atomici.

‎ Il premier israeliano Netanyahu ieri ha ripetuto le sue accuse all’Iran che, ‎afferma, avrebbe l’intenzione di costruire bombe nucleari mettendo a rischio ‎l’esistenza di Israele. E ringrazia Donald Trump che martedì ha sfilato gli Stati ‎Uniti dall’accordo internazionale del 2015 sul nucleare iraniano e imposto pesanti ‎sanzioni a Tehran. Ma a conti fatti l’unico Paese del Medio Oriente a possedere ‎segretamente l’atomica era e resta Israele. Usa, Europa e l’Aiea non hanno mai ‎voluto indagare seriamente sul programma nucleare di Israele che, peraltro, non ha ‎mai firmato il Trattato di non proliferazione e mantiene una posizione di ‎‎”ambiguità nucleare”, non ammette e non smentisce. ‎«La vicenda del possesso da ‎parte di Israele dell’arma atomica è uno degli aspetti più scandalosi della comunità ‎internazionale» spiega al manifesto la giornalista e saggista Stefania Limiti, autrice ‎del libro “Rapito a Roma” (ed. L’Unità, 2006) ‎«i movimenti pacifisti e democratici ‎devono molto a Mordechai Vanunu che nel 1986 ebbe il coraggio di denunciare ‎quanto aveva avuto modo di vedere nella centrale di Dimona. Andò a Londra e ‎denunciò che Israele possedeva un armamento atomico importante. Lo fece per ‎una scelta di impegno civile e di testimonianza». Vanunu ‎«è stato dimenticato», ‎aggiunge Limiti, ‎«è stato abbandonato, ha vissuto terribili anni di isolamento in ‎prigione, e non può lasciare Israele. Nei suoi confronti l’Italia è in debito. La ‎premier Thatcher intimò al Mossad di non rapirlo in Gran Bretagna e gli agenti ‎israeliani misero in atto il sequestro a Roma. L’Italia ha avuto nel tempo una grave ‎responsabilità, quella di abbandonarlo. Vanunu non va dimenticato perchè ha ‎sollevato il velo di menzogna che Israele aveva steso sul possesso di armi ‎nucleari». ‎

‎ Le rivelazioni di Vanunu sono state decisive, grazie ad esse esperti ‎internazionali hanno potuto calcolare fra 100 e 200 gli ordigni atomici negli ‎arsenali israeliani. Il tecnico lavorò per nove anni a Dimona, costruita ‎ufficialmente per la produzione di energia elettrica ma che il laburista Shimon ‎Peres con l’aiuto del padre della atomica francese Francis Perrin trasformò in un ‎impianto militare. Anni di lavoro in cui Vanunu maturò la decisione di riferire al ‎mondo quanto vedeva ogni giorno. Con una Pentax scattò in segreto 58 foto nel ‎Machon 2, un complesso di sei piani sotterranei della centrale atomica dove ‎venivano prodotti annualmente una quarantina di kg di plutonio. Costretto a ‎dimettersi, con uno zaino pieno di informazioni, Vanunu partì per l’Australia ‎dove si mise in contatto con il Sunday Times. Giunto a Londra nell’agosto del ‎‎1986, si recò al giornale riferendo per due intere settimane i suoi segreti. Il ‎giornale esitò a pubblicare il racconto. Lo fece solo il 5 ottobre, quando si seppe ‎della scomparsa dell’israeliano. Vanunu si rivide in pubblico il 7 ottobre, a ‎Gerusalemme, durante il processo per “alto tradimento”, quando con uno ‎stratagemma – scrivendo sul palmo della mano che mostrò ai fotografi fuori ‎dall’aula – fece sapere di aver raggiunto Roma il 30 settembre con il volo 504 ‎della British Airways e di essere stato rapito. ‎