Dilma Rousseff sceglie l’austerità. Il governo brasiliano ha deciso tagli per 65.000 milioni di reales (circa 14.900 milioni di euro). Il bilancio destinato ai programmi sociali, in particolare quelli sulla casa verrà decurtato di quasi il 30%. Congelati anche i salari dei funzionari pubblici. Sul tavolo, tra i vari aumenti di tasse, anche un’imposta sui movimenti finanziari: dello 0,2% su tutte le operazioni realizzate nel paese. Seppure in proporzioni così esigue, la misura consentirebbe di recuperare 32.000 milioni di reales, da destinare alle coperture sociali. E comunque, insieme alle altre proposte di tagli (16), dovrà passare prima per l’approvazione del Congresso e ottenere i 308 voti necessari. L’unica che può attuarsi subito è la riduzione dei ministeri da 39 a 29.

Il ricatto arriva dai mercati, che da mesi cercano di liberarsi di Rousseff obbligandola ad andarsene o imponendole misure impopolari. I dati dell’attesa recessione e del deficit fiscale vengono gonfiati e enfatizzati dai grandi media, che denunciano la perdita di credibilità internazionale del Brasile. Per il 2015, si calcola una recessione del 2,44% del Pil, e dello 0,50% per il 2016. Per l’anno in corso, la svalutazione del real supera il 45% e il deficit fiscale dello 0,5%. Ma a entrare a gamba tesa è stata l’agenzia Standard & Poor’s, che ha declassato il debito brasiliano a livello di «buono spazzatura». Dopo una riunione d’emergenza dell’esecutivo, convocata da Rousseff, il ministro delle Finanze, Joaquim Levy e quello di Pianificazione, Nelson Barbosa, hanno annunciato il pacchetto di «rimedi amari», come lo ha definito la presidente.

«Il nostro paese è molto di più che una nota di credito – ha dettoRousseff – In questi anni, molti paesi – Stati uniti, Francia, Italia, Spagna – hanno attraversato situazioni difficili, ma sono tornati a crescere. Siamo la settima economia del mondo e ne usciremo: senza passare per una rottura democratica come vorrebbe chi cerca di utilizzare la crisi per prendere il potere attraverso una forma moderna di golpe».

Ma il governo e la presidente attraversano un momento particolarmente delicato. Gli attacchi politici ed economici a Rousseff e al suo Partito dei lavoratori sono quotidiani. I prossimi mesi saranno determinanti. A ottobre, il Tribunal de Cuentas decide se approvare o meno i conti del 2014. Se non lo fa, tantomeno lo farà il Congresso e Dilma potrebbe cadere. A novembre, ci sarà anche il congresso annuale del Pmdb, il partito del vicepresidente Michel Temer, che potrebbe abbandonare il governo. E Temer potrebbe farsi avanti in caso di rinuncia di Rousseff e anche presentarsi come candidato alle presidenziali del 2018.

L’ex presidente Lula da Silva ha già annunciato la propria candidatura per il Pt ed è sceso in campo per recuperare da sinistra la crisi – di ideali e di programma – in cui versa il suo partito, coinvolto nella grande inchiesta per corruzione della Petrobras (la petrolifera di stato). Le destre cercano da tempo di coinvolgere anche Lula nelle inchieste giudiziarie. Intanto, quattro dei più importanti partiti di opposizione hanno creato un fronte per arrivare all’impeachment: deputati dei partiti della Socialdemocrazia brasiliana (Psdb), Popolare socialista (Pps), Solidarietà (Sd) e Democratici (Dem) hanno creato un «movimento» e sperano di aggregare all’iniziativa anche altri parlamentari del Pt, scontenti della gestione Rousseff.

Intanto, si scatenano gli uomini del Fondo monetario e della Banca mondiale, che usufruiscono di grandi tribune sui media internazionali. Così, l’economista venezuelano Moises Naim, ex direttore del Banco Central del suo paese sul finire degli anni ’80, acerrimo nemico del chavismo e firma di El Pais, prevede un futuro nerissimo per due paesi cardine della regione: il Brasile e il Venezuela. Per Naim e per le grandi agenzie internazionali, è arrivato il momento di farla finita con il vento progressista che spira in buona parte dell’America latina e tornare al neoliberismo: fidando sulla caduta del prezzo del petrolio, sul freno nella crescita dell’economia cinese e sulla grande ripresa di interesse per l’ex «cortile di casa» da parte degli Stati uniti.
Intanto, in Brasile, i sindacati scendono di nuovo in piazza.