«Dobbiamo creare un nuovo modello di cooperazione orizzontale», dice al manifesto Vera Masagao Ribeiro, direttrice esecutiva dell’Associazione delle Ong brasiliane. Un organismo che riunisce tutte le organizzazioni senza fini di lucro «che lottano per cause umanitarie, per i diritti civili o per l’ambiente». Ribeiro è venuta in Italia per partecipare al seminario italo-brasiliano «Un’altra economia, un altro Welfare», organizzato a Roma dalla vicepresidente della Camera, Marina Sereni. Per l’occasione è stato presentato il programma Brasil Proximo che vede impegnate cinque regioni italiane – Umbria, Marche, Toscana, Emilia Romagna e Liguria.
Cosa intende per “cooperazione orizzontale”? Che peso hanno le Ong nella realtà del paese?

Secondo un ultimo censimento, vi sono 290.000 Ong sparse su tutto il territorio. Il 70% è composto da volontari, una parte svolge lavoro filantropico negli ospedali, negli asili, poi c’è un gruppo più attivo: organizzazioni di cittadini che fanno un lavoro più partecipativo, hanno anche una funzione di controllo del governo rispetto all’uso del denaro pubblico. Sono nate durante la dittatura militare con il supporto della cooperazione internazionale, anche di quella italiana. Ora, però, con lo sviluppo economico del paese questa cooperazione internazionale inizia a uscire di scena e noi dobbiamo fare un lavoro diretto. E questo tipo di organizzazioni ha difficoltà perché non ha mezzi propri. Per questo abbiamo bisogno di creare una legislazione appropriata che consenta di unire conoscenze e risorse di paesi ricchi e poveri in un nuovo modello di cooperazione.
Qual è il ruolo delle chiese?
Il Brasile è prevalentemente cattolico, il peso della chiesa cattolica resta preponderante rispetto alle altre religioni che si vanno espandendo. La sua influenza nel sociale – soprattutto nel campo filantropico e della solidarietà – è forte, per via del ruolo speciale che ha svolto durante la dittatura militare, alleandosi alle forze progressiste per lo sviluppo di politiche sociali. La nostra associazione difende però la laicità dello stato e i diritti civili – come quelli dei gay o delle prostitute – e per questo un po’ di conflitto c’è.
Il terzo settore in Italia ha avuto anche un ruolo di supplenza nella dismissione dello stato rispetto al welfare. Pensa che sia un modello da seguire?

C’è una discussione in corso anche da noi. Io penso che non si debba esternalizzare, il servizio dev’essere pubblico. I gruppi autonomi possono intervenire, ma la gestione di determinati settori, come la cultura o le carceri, deve rimanere completamente dello stato. Alcune esperienze realizzate dalle ong in piccola scala, per esempio quelle per sperimentare nuove tecnologie sociali, possono poi diventare pubbliche ed essere prese in carico dallo stato al 100%. Un sistema di raccolta e riutilizzo dell’acqua piovana che ha funzionato molto bene nel nord-est è stato trasformato in politica pubblica dal governo Lula. Il problema si situa spesso a livello dei governi federali. Noi agiamo con molta forza anche a livello internazionale per la difesa dell’ambiente, cerchiamo di farci sentire in occasione dei Forum mondiali, esigiamo trasparenza nella gestione dei soldi pubblici.
Il Brasile è attraversato dalla protesta sociale. Qual è la sua lettura?
Dilma non ha il carisma di Lula, è un’amministratrice, una tecnica, parla poco con i movimenti sociali, ha puntato più sull’efficienza che sul dialogo. Le manifestazioni sono state un grido della società contro la politica tradizionale, contro l’esecutivo e il legislativo che viene visto malissimo (un po’ meno il potere giudiziario). Tutti siamo rimasti molto sorpresi da questo movimento saltato fuori dal nulla: sono tutti molto giovani, hanno pensato e forse capito molto prima di noi adulti e hanno agito. Le sinistre hanno seguito il movimento, ma ora si tratta di interpretare il senso di questo scontento. C’è una richiesta di partecipazione orizzontale. Le ong possono avere un ruolo molto importante nel lubrificare il rapporto tra governo e società civile.