Dottrina, ampie letture in varie aree del sapere, predisposizione psichica allo sguardo acuto sullo stato e l’essere della Natura, distinguono l’opera meditativa e narrativa di Annie Dillard, una emersione dal canone americano degli anni settanta nella tradizione boschiva di H. D. Thoreau, anche se in modalità più trasfigurate, meno concrete sul piano di una mappatura scrupolosamente «americana» del laghetto Walden, vicino a Concord, Massachusetts, che Thoreau chiama «ombelico del mondo».
Attiva da molti anni, Dillard è stata riconosciuta infine come una saggista dalla prosa lirica di fibra buona. Nel 2014, Obama, che pretende di intendersi di certi temi (o comunque vuole imparare), le ha conferito la National Medal of Arts, come a Marilyn Robinson, un’altra sugli stessi registri, di cultura teologica più che pseudo-ecologica. Benché, nel caso di Dillard il termine «ecologico», così di moda oggi, non sia proprio esatto. Al massimo si può dire che ne è una precorritrice, sebbene la sua scrittura sia più propensa a costruire invece – e cinquant’anni fa – un’autoanalisi di inclinazione quasi ascetica tramite la comunione con la natura. Tutt’altra questione.

Eloquenza e audacia metafisica
Dopo Ogni giorno è un Dio, Bompiani manda adesso in libreria quello che è ritenuto il suo capolavoro: Pellegrinaggio al Tinker Creek – Premio Pulitzer per la saggistica 1975 –, nella traduzione scrupolosamente curata da Gabriella Tonoli, con l’aggiunta delle numerose corrispondenti fonti in italiano («Overlook», pp. 351, e 18,00). Nel 2007 la stessa Dillard – ventisettenne quando cominciò a scrivere Pellegrinaggio, nel ’72 – si cautela, avvertendo che questo è «il libro di una giovane scrittrice caratterizzato da una eloquenza entusiasta e un’audacia metafisica … Ricorrendo alla prima persona singolare cercavo di essere – per usare l’espressione sempre comica di Emerson – un bulbo oculare trasparente». Direi che l’aforisma di Emerson non è «comico» e ha fatto strada nella trama del pensiero americano. In una postfazione del 1999, Dillard non si corregge, nonostante sia proprio il «bulbo oculare» di Emerson quello che lei usa nelle sue indagini. Nel ’99 preferisce piuttosto spiegare come la sua avventura cominciò.
Fu in un campeggio nel Maine che le capitò di leggere un libro sulla natura di un autore che nel libro successivo si era perso in quisquilie, l’aveva delusa. E allora si chiese: «Perché non scrivere una sorta di libro sulla natura, una teodicea per esempio?». Ovvero, un libro sulla presenza del male in un mondo creato da Dio. Il traguardo era ambizioso. Eppure, ne venne fuori un libro «audace», che destò il sospetto degli editori, un libro «impudente» nelle metafore, mi «ci sono buttata senza paura di Dio; a ventisette anni pensavo che avevo tutto il diritto di occuparmi delle grandi questioni della Terra».
Tornata in Virginia dal Maine, si propone di «tenere qui quel che Thoreau chiamava ‘il diario meteorologico della mente’», che anch’essa adotta nella scansione stagionale, seguendo i ritmi della natura e dei suoi personaggi in tutte le loro manifestazioni cicliche, le mutazioni, la variazione dei colori, i cambi di pelle, le ibernazioni. La legge, è noto, è quella della sopravvivenza, del chi divora chi, il tutto sotto il governo della teodicea di un Dio non necessariamente cristiano.
La segnatura quasi mistica che dà inizio all’avventura di Dillard è un po’ inusuale. Nel suo soggiorno nella valle, si era portata dietro un gatto prepotente che d’estate e di notte le piombava addosso con odore di orina e sangue. Nel dormiveglia, le graffia il petto con violenza. Lei si contempla il seno al mattino e lo vede come ricoperto di petali di rosa. «Che sangue era questo, e che rose?». Un’allucinazione o un’esperienza quasi mistica, ricavata dall’agiografia delle Sante. E, tuttavia, si chiede se le stigmate siano «un emblema o una macchia». Ecco spuntare, sotto la nuova pelle revisionista, la vecchia ossessione puritana della «colpa» calvinista, nella cui tradizione il gatto – meglio saperlo – è compagno del diavolo.
La terra che fu di Jefferson
Di Tinker Creek avevamo già letto in Ogni giorno è un Dio. Il fiumiciattolo si trova in Virginia, in una valle fra le Blue Mountains. Dillard allora studiava in un college nelle vicinanze di Charlottesville, sulla terra che fu di Jefferson, il quale, nei tempi di riposo, contemplava il rassicurante Blue Ridge dalla sua dimora chiamata Monticello. Avrà fatto anche lui qualche esplorazione del suo immenso territorio. Era curioso ed esperto di natura americana. Ma Jefferson non era un esploratore.
La vita dell’esploratrice, secondo Dillard, deve possedere un occhio affinato, il distrarsi significa perdere un miracolo fuggitivo: «la natura è soprattutto una questione di ora vedi, ora no. Un pesce guizza fuori, poi sparisce davanti ai miei occhi come il sale nell’acqua. I cervi danno l’impressione di salire fino al cielo; l’oriolo tutto sgargiante svanisce fra le foglie. Queste sparizioni mi stordiscono fino all’immobilità inebetita; della natura dicono che cela con suprema indifferenza e di quel che si vede dicono che è un dono voluto, la rivelazione di una danzatrice che solo per il mio sguardo si leva i sette veli. Perché la natura rivela oltre a celare: ora non vedi, ora sì».
E in questo capitolo «Vedere» (come negli altri più stagionali) si segue un alfabeto di creature dai nomi sconosciuti per noi non boschivi, esseri d’ogni colore che d’improvviso fanno capolino e poi scompaiono, come riassorbiti per osmosi nelle fronde o nell’acqua. Barlumi di un mistero che non vuole svelarsi, un enigma dell’esistere e del non esistere, gioco e riserbo, realtà e fantasia. Soprattutto si rivela la superiorità divina di queste creature aliene al rapporto con l’uomo.
Io non so se questo libro sia una «teodicea» ma è certamente un’intensamente vissuta «autobiografia spirituale», registrata da uno sguardo stupito sul creato, sul cosmo, su se stessi, in una prosa curata da grande tessitrice. È proprio qui il richiamo più vivo di Pellegrinaggio al Tinker Creek nel canone che oggi si va trasformando in altre direzioni.