In Africa, per la precisione nella Repubblica Democratica del Congo, il governo ha dato il via libera alla costruzione della diga più grande e costosa della storia dell’umanità. Un’opera capace di produrre 40mila megawatt – l’equivalente di 20 centrali nucleari e il doppio del mega sbarramento delle Tre Gole in Cina – e che costerà l’incredibile cifra di 80 miliardi di dollari qualora saranno portate a termine tutte le sue cinque fasi di costruzione sulle spettacolari cascate sul fiume Congo. Per ora il governo di Kinshasa ha annunciato che nel 2015 prenderà il via la prima fase, che a regime sarà in grado di fornire quasi 5mila megawatt, metà dei quali finiranno in Sudafrica, ormai una potenza continentale e anche per questo sempre più assetato di energia. Dei lavori se ne dovrebbero occupare imprese cinesi, coreane o spagnole, ma nulla è stato ancora deciso in proposito.

Dettaglio non proprio trascurabile, il Congo è uno dei paesi più poveri dell’Africa e può contare su un Pil annuale di soli 21 miliardi di dollari. Per questo, durante un incontro tenutosi a Parigi nello scorso fine settimana, hanno fatto sapere di essere disponibili a dare una mano la cooperazione francese, la Banca europea per gli investimenti, la Banca africana di sviluppo e soprattutto la Banca mondiale. Ovvero l’istituzione che da decenni foraggia con assegni milionari lo sviluppo idroelettrico sul Congo, secondo fiume al mondo per portata d’acqua (40mila m3/s). I primi due tentativi, Inga 1 e Inga 2, sono datati addirittura 1972 e 1982 e videro anche la partecipazione dell’agenzia di credito all’export italiana, la Sace. Peccato che entrambe le dighe non abbiano mai lavorato a pieno regime, raggiungendo a stento la metà dei 1.400 megawatt di energia previsti. In compenso i costi lievitarono in maniera esponenziale, contribuendo in maniera massiccia a provocare la voragine finanziaria che si trovò a fronteggiare il governo del sanguinario dittatore Mobutu.

Ma i precedenti negativi non sembrano dissuadere le istituzioni internazionali, anzi. In settimana il presidente della Banca mondiale Jim Yong Kim si è recato in Congo per rassicurare le autorità locali sulle «buone intenzioni» dei banchieri di Washington, vogliosi di tornare a finanziarie il comparto idroelettrico nel Continente Nero. Non a caso nel suo viaggio di lavoro Kim ha fatto tappa anche in Uganda e Rwanda per discutere dei progetti di Batoka Gorge e Mphanda Nkuwa sullo Zambesi. Grand Inga viene sbandierato come il progetto ideale, perché ha impatti ambientali limitati e non prevede la necessità di reinsediamento di migliaia di persone, come successo per esempio in Cina con la diga delle Tre Gole. Ma Kim e i suoi sodali si guardano bene dall’evidenziare come in Congo meno del dieci per cento della popolazione abbia accesso diretto all’energia elettrica – la produzione di Inga 1 e 2 va quasi tutta al settore estrattivo della «cintura del rame» del Katanga – e che anche qualora dovesse fare la sua comparsa Grand Inga la situazione non dovrebbe migliorare un granché. Come abbiamo accennato, una porzione importante dei megawatt derivanti dalla prima fase di sviluppo viaggeranno verso le energivore miniere sudafricane.

Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, non esattamente un covo di sovversivi, quella dei mega sbarramenti rappresenta la cura sbagliata per le esigenze di un continente come l’Africa. Vista la bassa densità abitativa, servirebbero soluzioni alternative, basate su reti di piccole dimensioni o progetti di rinnovabili decentralizzate (solare ed eolico) e a costi contenuti, che per altro renderebbero le comunità meno esposte agli effetti perversi dei cambiamenti climatici rispetto alle grandi dighe, la cui portata d’acqua può essere condizionata in maniera estrema dalla imprevedibilità delle precipitazioni.

Ma come di consueto, le lezioni del passato vengono ignorate e si subordinano gli interessi di intere popolazioni a quelli delle imprese. Varie realtà della società civile internazionale, come la storica associazione statunitense International Rivers, hanno fatto sentire la loro voce e hanno provato a mettere pressione sulla Banca mondiale. Al meeting di Parigi, che sembra aver deciso il destino di Grand Inga, non sono state però nemmeno invitate a esprimere la loro opinione. Un chiaro segnale che su affari multimiliardari di questo tipo non si accettano voci fuori dal coro.

* Re:Common