Esiste un cinema che si nutre di latitudini, di geografie personali, di coordinate sentimentali capaci di tracciare un percorso filmico di «mise-en-trance», d’ipnosi sensoriale, di scrittura come referente unica del linguaggio cinematografico. Il cinema di Vincent Dieutre, autore «espanso» che con la parola e i luoghi ha saputo «intimizzare» eventi storici e tragedie private, da sempre scava radicalmente nel realismo, attraversando i codici linguistici e i dispositivi visivi, per accedere a una poetica dominata dalla consunzione e dal fluire del tempo. Nell’ormai consolidato processo di scollamento temporale di immagine e parola, Dieutre ha recentemente presentato a Palermo, nell’ennesimo microcosmo «dilatato» dei Cantieri Culturali alla Zisa che hanno ospitato la quinta edizione del Sicilia Queer Filmfest, un’installazione dal titolo Low-Fi Chronicles, realizzata insieme all’amico fotografo Christophe Berhault. L’opera compendia le memorie audio e video delle rispettive vite berlinesi in una sala/focolare dove scorrono oltre 5.000 fotografie, l’archivio dei giorni di Berhault, accarezzate dalla voce-ricordo di Dieutre che affonda nella memoria del suo tempo perduto. Fra i suoni della città tedesca e le intromissioni acustiche della primavera palermitana, che esige il suo ruolo dalle finestre aperte, nasce così un nuovo sguardo a due sull’auto-narrazione che il regista francese ha voluto raccontarci tra le mura assolate dei Cantieri.
«Low-fi Chronicles» cattura, con la memoria e l’immagine, la città di Berlino. Cosa la affascina maggiormente di questa città?
Sono andato a Berlino per la prima volta quando c’era ancora il muro, nel 1987 credo, e aveva il fascino irripetibile della città divisa, dei soldati russi, degli elicotteri nel cielo. Per caso ho realizzato il mio primo video-diario lì, grazie a un amico e a un po’ di soldi del Goethe Institut ma poi non sono più tornato fino alla presentazione del mio primo lavoro, in un 16mm minimalista, Rome désolée, al Forum di Berlino del 1995. Negli anni successivi ho girato anche un film, Mon voyage d’hiver del 2003, sulla mia relazione con alcuni uomini tedeschi, una generazione fuggita dalla Germania per colpevolezza storica e da quel momento ho cominciato a tornare e a veder cambiare questa città. Ho visto tanti artisti, amici, scrittori, che andavano a vivere a Berlino perché la città era molto più aperta, alcuni si trasferivano per ragioni molto concrete, ad esempio i soldi, ma anche perché rappresentava la capitale culturale di questo nuovo progetto europeo di riunificazione.
Non è mai stato tentato di fare la stessa cosa?
Ogni tanto, ma Parigi rimane per il cinema la città ideale. In Germania non c’è un sistema nazionale, sono le tv e i singoli Länder a fornire il denaro alle produzioni. Il mio amico Yann Gonzales, il regista di Les rencontres d’après minuit, ha voluto trasferirsi poi è tornato in Francia. Il cinema non si può fare su Internet, non è come la scrittura o la musica.
Il suo prossimo film però, Berlin Based, sarà girato proprio a Berlino…
Si perché ho cominciato a ragionare su questa utopia di Berlino negli anni duemila. Sto scrivendo ma ho già cominciato a girare qualche immagine perché voglio accumulare un materiale documentario immenso e poi tagliare. Per il momento, tutte le persone che ho filmato parlano del cielo, dell’aperto di Berlino, come se soffocassero nelle loro precedenti città. Per oltre vent’anni la scena culturale europea si è trasferita lì, con illusioni ed errori, ma credo che questa «società» sia in piena decadenza.
Su cosa si basa questa sua convinzione?
Una città sola non può digerire così tante utopie e speranze. Un amico italiano, Francesco Masci, ha scritto un piccolo testo, L’ordine regna a Berlino, citando l’ultimo articolo di Rosa Luxemburg. Francesco vive a Berlino e crede che questo mito del «laboratorio del futuro», dove la soggettività fittizia ha trovato l’ambiente ideale per gli sfoghi del proprio ego ipertrofico, sia una specie di auto-promozione con la quale si deve obbligatoriamente negoziare la «finzione». Alcuni artisti infatti non «sopravvivono», trovandosi di fronte ai problemi della concorrenza, alla violenza del mondo artistico e non ce la fanno, ebbri di un’utopia che prometteva spazio per tutti.
Tornando all’installazione, come è nata l’idea di questo incontro fra lei e Christophe?
Conosco Christophe da quando eravamo adolescenti. Nasce come pittore ma da quando è in Germania ha cominciato a ripensare il suo modo di creare. Mi ha mostrato libri pieni di foto che raccontavano otto anni della sua vita berlinese diario fotografico, lì è nata la scintilla e abbiamo cominciato a comporre dei trittici di foto pensando alle forme della pittura classica, della pala d’altare barocca, mettendo le foto in ordine cronologico e soprattutto non mostrandole come oggetti specifici visto che appaiono solo per pochi secondi. Poi ho raccontato un mio ricordo personale di qualche giorno prima e ho cominciato a scavare nella memoria dei decenni passati.
Un processo assolutamente proustiano insomma…Quanto avete impiegato a realizzarla?
Per una settimana sono andato tutti i giorni nell’atelier, guardavo le foto e poi cominciavo a registrare. Ho fatto una selezione di ricordi senza darmi dei limiti: alcune storie durano mezz’ora, altre qualche secondo e nel frattempo nel mio inconscio riemergevano i ricordi. Poi abbiamo chiesto a un amico musicista di improvvisare pezzi musicali per punteggiare l’esperienza della visione. L’idea è di presentarla al Forum della Berlinale e anche a Parigi ma prima abbiamo voluto testare questo «oggetto» a Palermo.
«Low-Fi Chronicles», come tutto il suo cinema, è un gesto sul tempo, perduto e consumato…
Si, mi riconosco molto in questa definizione e la cosa che più mi piace di questa installazione è vedere la «soggettività temporale» della gente: alcuni entrano per due minuti, altri si fermano per più di due ore. Ci sono lunghi pezzi di silenzio ma silenzio «berlinese» con i bambini turchi in giardino e i rumori della città. Mi sono concentrato sull’idea della memoria, che forse può essere più «lavorata» nella forma installazione che in un film, dove c’è sempre un ritmo «oggettivo» da rispettare anche se trovo che sia artificiale fermare le riprese mentre si usa una videocamera perché la natura di queste telecamere è girare sempre.
Al Sicilia Queer Filmfest ha introdotto la proiezione di «Je, tu, il, elle» di Chantal Akerman, una regista fondamentale per il suo cinema…
Chantal è stata la prima ad aver cercato di «entrare» nell’arte e alla fine era più famosa come artista che come regista perché, purtroppo, i campi culturali sono ancora separati in maniera artificiale. Un amico critico mi ha detto «Tutti i film di Chantal erano già installazioni» ed è vero, basta pensare a Jeanne Dielman o Toute une nuit dove il concetto era fondamentale, fin dal titolo. Nella mia opera forse cerco le sue tracce anche perché mi ha sempre interessato la relazione fra arte e cinema ma anche il modo di consumare le immagini e il non dimenticare mai la dimensione di puro gesto del cinema che a volte, colpa della paura di perdere gli spettatori, si smarrisce insieme all’essenza del lavoro. Questo cercare, questo inventare nuove forme sono le cose che sento di aver «ereditato» da Chantal.
Sempre a proposito di «riferimenti», osservando l’essenza fotografica e personale di «Low-Fi Chronicles», ho pensato a Hervé Guibert, all’autofinzione, alla spoliazione dell’io ma soprattutto al suo film, ormai perduto, «La pudeur ou l’impudeur»…
Ho conosciuto Hervé quando eravamo ancora ragazzi e lui era già famoso come critico di fotografia. Poi ho letto i suoi libri e ci siamo rivisti a Roma, quando mi trovavo a Villa Medici per girare Rome désolée. Era quasi un fantasma, malato di HIV e viveva all’isola d’Elba. Il suo film, quel gesto alla prima persona così forte, è stato un detonatore per tutti, da Sophie Calle ad Alain Cavalier. Non uscì mai in sala ma è stato un evento storico e oggi è quasi dimenticato ma forse è meglio così, forse deve restare misterioso e segreto come il suo sguardo, come gli occhi di Chantal.