Dieudo Hamadi, classe 1984, è nato a Kisangani, nella Repubblica Democratica del Congo, luogo dove ancora vive e lavora. Documentarista puro – che in questi mesi sta preparando il suo esordio nel cinema a soggetto, ancora con un film girato e ambientato in Africa -, fa parte della generazione di cineasti e filmmaker africani che nell’ultimo decennio hanno contribuito a una nuova primavera cinematografica che dal continente si è proiettata in tutto l’Occidente. Il suo cinema si distingue per un lucido e cristallino impegno politico privo di qualsiasi cedimento all’enfasi e alla retorica dell’urgenza. Pur prodotti con fondi europei – per lo più francesi – i suoi film mostrano i segni di un’autonomia estetica solida e originalissima, uno stile nel quale la materia del racconto trova organicamente e politicamente una sua forma adeguata, nel quale gesto, emozione e pensiero si agitano sempre in una frenetica danza. Uno stile e un’idea di cinema che fondano sulla lucida raccolta di voci, di gesti e di durate temporali la sublimazione in un’epica nazionale lirica e rigorosa.

Dopo due cortometraggi e quattro lungometraggi selezionati e premiati nei più autorevoli festival del mondo, programmati e discussi presso le più prestigiose istituzioni in Europa e in America, nel 2020, con l’uscita del suo nuovo En route pour le milliard – micro-epopea lirica e politica sulla quotidiana lotta per la memoria e sulle rivendicazioni civili di un gruppo di superstiti che nella sanguinosa Guerra dei Sei Giorni, consumatasi tra ugandesi e ruandesi proprio nella regione intorno a Kisangani, poco più di vent’anni fa, furono gravemente feriti -, Hamadi sembra aver raggiunto una nuova e inedita maturità, corrisposta da una prima canonizzazione internazionale, passando con un solo film attraverso i più importanti festival del mondo e guadagnando la consacrazione del Cannes Label.

Dieudo Hamadi

Il primo incontro con il cinema credo sia stato con un film d’animazione, a poca distanza da casa, a Kisangani, in Congo.
Il primo incontro è stato con Dumbo. Avevo sette o otto anni. Nella mia scuola elementare – una scuola cattolica che si trovava vicino la parrocchia – il prete aveva organizzato una proiezione su grande schermo. Fu la mia prima proiezione cinematografica. È stato uno shock che mi ha segnato.
Poi sono cresciuto come un giovane congolese qualunque, a Kisanghani, con la televisione, i film americani sul piccolo schermo; fino al 2007, quando ho incontrato un filmmaker congolese che ha raccolto giovani in città per un atelier di cinema. Io avevo già qualche base di montaggio grazie a un amico d’infanzia che mi aveva insegnato un po’ dei rudimenti. Ho iniziato a imparare a maneggiare una videocamera e a raccontare delle storie con le immagini. Nel frattempo ho anche cominciato a conoscere il cinema d’autore che per noi era inaccessibile all’epoca. Un anno più tardi mi sono ritrovato a Kinshasa, per un’altra opportunità di formazione organizzata da Djo Munga, un regista congolese. Ho passato un anno o poco più a imparare a fare documentari. Nel 2009 mi sono lanciato e ho fatto un piccolo cortometraggio, poi un altro l’anno successivo. Nel 2013 ho realizzato il mio primo lungometraggio, Atalaku.

Quando e come è avvenuta la decisione di fare del cinema il suo mestiere?
Il clic per decidere d’iniziare a fare documentario è stato l’incontro con un film preciso, di Raymond Depardon: Dixième Chambre. Avevo già visto molti film, ma solo quando ho visto Dixième Chambre ho capito che potevo fare film interessanti, che quello era il modo giusto per raccontare le mie storie. Mi ha impressionato l’apparente semplicità del dispositivo: un regista, la sua camera, un fonico sono sufficienti per raccontare una storia. Mi son detto: in fondo non è così complicato. Non c’è bisogno d’imparare molte cose se non cogliere il momento, catturare quel che succede davanti l’obiettivo.

Qual è l’importanza del pensiero e del lavoro sullo stile per un cinema come il suo così direttamente e immediatamente fondato sui fatti che la circondano?
Nel mio caso è il soggetto del film che detta la forma. È vero che faccio film che si somigliano tutti in quanto alla forma, ma questo succede perché non ho il desiderio di andare a cercare lontano, perché ogni volta mi rendo conto che col mio stile di cinema diretto sono stato capace di raccontare una certa storia così come mi si è presentata.

Ha più volte parlato dell’importanza di raccontare il Congo per i congolesi. La cosa che colpisce guardando i suoi film è la capacità di trasfigurare il mondo dei fatti, presentando allo spettatore più di quanto non sia semplicemente visibile, restando al contempo sul piano di una rigorosa concretezza.
Ogni volta che riprendo le persone – soprattutto i miei connazionali, perché io filmo i congolesi in Congo, in situazioni che conosco in prima persona – ho il desiderio di andare oltre le apparenze, al di là di quello che vedo, perché credo che l’essere umano non sia solo quel che dà a vedere, non si riduca solo a un’apparenza. So che sul mio Paese ci sono molti pregiudizi. In quanto cineasta, se mostro niente altro se non quello che le persone conoscono già, se racconto le stesse storie che si ritrovano nelle narrazioni televisive, non faccio niente di interessante. Il mio lavoro inizia dopo quello del giornalista, va più lontano. E dentro tutto quello che scelgo di mostrare sono sempre alla ricerca di qualcosa che possa valere al di là di quel che mostro, qualcosa che possa raccontare il Paese in modo differente, qualcosa che permetta di vedere quello che è invisibile alla camera. Che funzioni oppure no, l’importante è la storia che racconto: faccio sempre del mio meglio perché questa storia risuoni in molte direzioni, più e meno note, che getti luce nuova sulla condizione dei congolesi e sulla situazione del nostro Paese.

Presentando il suo ultimo film «En route pour le milliard» ha parlato spesso del tempo e della memoria in Congo come di due questioni collegate tra loro. C’è poi una definizione che viene usata per il suo lavoro: «cinema immersivo». Mi pare le due cose possano vedersi congiunte in una specifica idea tridimensionale del tempo interna ai suoi film, immersiva appunto, e aperta: come se lo spettatore fosse gettato insieme a lei in un luogo che sembra essere la materializzazione di un prisma temporale.
Sono piuttosto lusingato, non credo di essere del tutto consapevole che nei miei film succede quanto dice. Fare del film un’esperienza immersiva è il solo modo di cogliere una certa parte di realtà e di andare un po’ più in profondità. D’altra parte una certa nozione di memoria è onnipresente nei miei film molto semplicemente perché quello che faccio oggi, vorrei che esistesse anche dopo di me. Attraverso i miei film mi piacerebbe comprendere la colonizzazione nello sguardo dei congolesi, che la raccontassero loro, come l’hanno vissuta e tutto il resto. La sola parola su questo periodo della nostra Storia è la parola del Belgio, è la parola dell’Altro, del colonizzatore. Ci manca la parola del colonizzato. E io, in quanto congolese, ho vissuto la mancanza di questo punto di vista: sono stati i colonizzatori che ci hanno spiegato che cosa è successo, non conosco la versione dei congolesi su questa epoca. I congolesi della mia generazione hanno molto sofferto. In quanto cineasta il mio lavoro consiste appunto nel documentare la realtà di oggi per le generazioni future. Ogni volta che faccio film ho quest’idea in testa: l’essenziale per me è raccontare la Storia congolese, le storie congolesi, raccontare il mio Paese mostrando però quel che in fondo non sono che storie umane, storie universali che possono parlare a chiunque. Quelli che si sentiranno colpiti o toccati da queste storie avranno modo di comprendere il Congo, o una parte di esso, una parte della sua Storia. Infine penso che guardando i miei film – a proposito di tempo tridimensionale – uno spettatore possa intuire, prevedere quel che succederà del mio Paese di lì a venti o trent’anni. C’è quasi uno spiraglio aperto sul futuro. Se centri lo sguardo sulla Storia del Congo non è difficile comprendere le ragioni del nostro presente.

Parlando dei suoi riferimenti cinematografici, le capita spesso di citare Wiseman. Pensando al suo cinema come a un corpo organico, mi pare ci sia un interessante somiglianza con il lavoro del maestro statunitense: nei suoi film al centro sta sempre la storia di come un certo gruppo di persone è legato e sottoposto all’istituzione; al contempo, anche se i singoli film sono in sé piuttosto diversi gli uni dagli altri, ricorre una sorta di epica nazionale che li attraversa e lega tutti.
La verità è che ho fatto film senza mai immaginare in anticipo di costruire qualcosa di globale. Lo prendo come un complimento il suo, penso ci sia qualcosa di vero: inconsapevolmente, sul piano intuitivo, qualche cosa mi ha guidato sempre a cercare – malgrado la diversità delle storie – nella stessa direzione. Il sentimento che mi ha guidato attraverso i diversi progetti è stato la rivolta contro tutte le ingiustizie che ho visto in Congo e il dolore. In ogni film c’è per me l’occasione di fare la mia rivoluzione. È perché sono davvero indignato da una certa situazione che inizio a desiderare di condividere la sua storia: può darsi che la connessione si trovi a questo livello, che sia questo il motore che mi spinge a fare un film. Wiseman è un regista immenso che ho avuto la sfortuna di conoscere dopo aver iniziato a fare film. Sono stato stupito che quel che facevo inconsciamente, c’era già qualcuno che lo faceva in modo magistralmente sistematico. Penso che se avessi visto i film di Wiseman prima d’iniziare a farne di miei, non avrei iniziato affatto, avrei sentito che tutto era già stato fatto e che questo modo di lavorare non aveva più alcun interesse. In qualche modo il mio ritardo nello scoprire Wiseman mi ha permesso di raccontare il Congo che conosco e di fare i film che posso fare.

Qual è il suo metodo?
In tutti i film che ho fatto molte cose nel processo delle riprese si somigliano, c’è una sorta di routine che si ripete, ma ogni volta ci sono anche delle significative differenze. Gli ostacoli non si ripetono mai: in un caso posso aver avuto difficoltà a lavorare con i protagonisti e in altri invece ho trovato subito apertura e disponibilità; così anche per i problemi pratici, qualche volta incontro enormi ostacoli, altre volte trovo rapidamente tutto quello che mi serve; anche con la polizia non è mai lo stesso, ci sono casi in cui nessuno mi disturba e momenti in cui mi ritrovo in guai seri. La cosa più importante di quando mi dedico alle riprese è che sono un regista organico: non importa quale sia l’argomento che ho in testa, quello che ho scritto, quello che prevedo di fare; quel che importa è che devo sentire le cose quando giro. I miei film si fondano sul momento. Mi è capitato davvero molte volte di cambiare direzione, abbandonare personaggi, non di cambiare film magari, ma di trovare un modo diverso di farlo perché sul momento non lo sentivo. Anche nel mio modo di inquadrare non ho alcun problema a cambiare drasticamente se sento che chi m’interessa sta passando dietro di me, se quello che m’interessa sta succedendo fuori dell’inquadrature che ho scelto. Dunque rispetto alle riprese sono in ascolto, ho una certa prontezza a lasciare da parte quel che mi distrae e a concentrarmi su dove il film «accade» e dove «sparisce». Il lavoro sta tutto nel manovrare per agguantare il film. Il segreto è muoversi per afferrarlo, per non lasciarlo andare, non perderlo.

Uno dei tratti distintivi del suo modo di girare e di montare è quella specie di aura di spazio e di tempo vuoti che lascia intorno ai suoi protagonisti. Sembra quasi un elemento legato a un atteggiamento spirituale. Forse ho completamente torto. È nato in una famiglia cattolica, vero?
Sì, i miei genitori sono cattolici, ma sono stato allevato dentro un movimento protestante che in Congo si chiama del «Risveglio». Non saprei, è la prima volta che mi pongono la questione in questi termini. Ho incontrato qualcuno che mi ha detto che nei miei film ci sono situazioni che hanno a che fare con la fortuna, momenti di pura grazia, momenti che si trovano nei film di finzione, scene che di solito sono scritte, preparate. Questo fa riecheggiare dentro di me quel che mi disse un professore della Femis, durante i miei due mesi di formazione lì dentro: disse che un fotografo non ha che la fotografia che si merita, un regista non ha che la fortuna che si merita. Penso in effetti che se per il cinema di finzione il regista è il re e il dio, per il documentario il regista è dio che organizza il mondo. Ci sono avvenimenti che non puoi prevedere né tantomeno governare, ma ci sono scelte che puoi fare che decideranno quale film otterrai alla fine. L’esercizio per me è proprio trovare il mio posto in una situazione data per avere la fortuna che merito di avere. Nel cinema diretto la realtà non puoi prevederla. E allora la cosa più importante è dove scegli di stare, dove metti la tua camera. È questo che fa la differenza, al di là della sensibilità, delle intenzioni. Il posto della camera è fondamentale e il mio lavoro è trovare sempre quel posto, sempre, per cogliere quello che cerco.

Qual è la sua posizione, il suo ruolo nel suo Paese, oggi?
Non ce l’ho ancora. Non sono sicuro di sapere qual è il mio posto, qual è il mio ruolo nella società congolese di oggi. Continuo a cercare. Vedremo se un giorno lo troverò.

Cosa significa per lei poter lavorare e fare i suoi film grazie ai finanziamenti europei?
È una questione che ho risolto molto presto, rapidamente, quando ho capito chi poteva finanziare i miei film e chi poteva vederli più facilmente. Mi sono detto che i film che cerco di fare sono film personali su cose che mi coinvolgono personalmente e che cerco di portare sullo schermo. Non mi crea nessun problema che chi finanzia e sostiene i miei film non sia congolese, che non lo sia ancora. Quel che è disponibile oggi è il sistema di finanziamento europeo, il sistema cinematografico occidentale: per me non è un fine, è un inizio, perché il mio scopo è partecipare alla costruzione di un’industria cinematografica in Congo. Ma per arrivare fin là non devo fare a meno del sistema europeo o di quello americano, dei sistemi che esistono già, che mi sostengono, che sostengono il mio pensiero. La fortuna che abbiamo ancora, in quanto africani, è che non siamo ancora censurati sui progetti che presentiamo per essere finanziati. Negli ultimi tre quattro anni , a poco a poco, i registi africani si sono segnalati presso le grandi manifestazioni cinematografiche in tutto il mondo, e questo non perché sono africani, ma per il valore del loro lavoro. Per me è giusto approfittare di questa situazione favorevole per costruire in patria, perché un giorno, presto, quelli che finanziano i nostri progetti possano essere i congolesi, gli africani. Questo è possibile. Finché i film che faccio mi somigliano e finché sono in grado di lavorare un po’ alla volta perché nel mio Paese, in Congo, inizi a succedere quello che in altri paesi come il Senegal sta già succedendo non vedo problemi. I miei film sono visti soprattutto fuori dal Congo, ma restano; quando i congolesi potranno e vorranno vederli, li avranno pronti.