«È un classico work song, parla delle lotte della gente che è sottopagata, che è vittima del colonialismo: e dell’aspirazione ad una vita migliore»: è questo – dice Belafonte in una intervista – che è «centrale» in The Banana Boat Song. The Banana Boat Song, inciso nel ‘55, è una delle irresistibili canzoni – un’altra è Matilda – con cui Belafonte, nato nel ‘27 ad Harlem da genitori giamaicani, negli anni cinquanta fa epoca, allargando gli orizzonti musicali degli americani con la moda di una musica per loro esotica che viene presentata come calypso: Calypso è il titolo dell’album del ‘56 con cui Belafonte è il primo artista al mondo a vendere in un anno più di un milione di copie di un Lp. Il brano è in effetti giamaicano, risalente probabilmente agli inizi del novecento, e ascrivibile al mento, il genere che ha preceduto lo ska e il reggae. Per Belafonte però non si tratta di una semplice canzoncina, dietro c’è la figura carismatica di Paul Robeson, la più forte influenza politica e artistica sul giovane Belafonte, che lo conosce in un teatro di Harlem appena tornato dalla seconda guerra mondiale, a cui ha partecipato arruolandosi volontario a 17 anni. Calypso è il titolo dell’album del ‘56 con cui Belafonte è il primo artista al mondo a vendere in un anno più di un milione di copie di un Lp.
Figlio di uno schiavo che era riuscito a fuggire, baritono classico, attore di cinema e teatro, sospettato di essere comunista, Robeson gli insegna le canzoni repubblicane della guerra di Spagna, dove è andato a sostenere gli antifascisti, gli parla della dignità degli afroamericani e della storia dell’Africa, ed è un artista che può interpretare Otello ma che si dedica anche al blues, agli spirituals, ai canti di lavoro, ai canti di rivolta della Grande Depressione: Belafonte cerca di seguire il suo esempio pescando nel patrimonio giamaicano, e anche lui avrà un repertorio molto ampio, blues, folk, standard.

GLI ESORDI però sono nel jazz, fra i protagonisti – Charlie Parker, Max Roach, Miles Davis – del nuovo rivoluzionario linguaggio del bebop: Miles resterà un amico. Mentre è all’apice del successo Belafonte fa generosamente da mentore a Miriam Makeba, che nel ‘59 è arrivata in Europa e poi non torna nel Sudafrica dell’apartheid e sceglie l’esilio negli Usa: Belafonte la sostiene, le suggerisce di non chiudersi negli standard di jazz e di caratterizzarsi richiamando l’Africa nel suo repertorio, e le mette a disposizione la sua popolarità pubblicando nel ‘65 l’album An Evening with Belafonte/Makeba. Fa da mentore anche al trombettista Hugh Masekela, che al principio dei sessanta pure sceglie l’esilio dal Sudafrica.

NELLA SUA AUTOBIOGRAFIA Still Grazing, Masekela offrirà di Belafonte un ritratto ammirato: prestante e di grande bellezza, e nel pieno della sua popolarità, Belafonte gli appare un uomo che non si atteggia a star, con uno stile di vita semplice; Masekela ne parla come di un padre, che lo ha aiutato a impostare il suo lavoro di musicista ma che gli ha dato anche il senso delle sue responsabilità di artista e «sopra ogni altra cosa» a «non dimenticarsi mai della gente da cui proviene».
Belafonte contribuisce a lanciare negli Stati uniti anche altri artisti, come la cantante greca Nana Mouskouri. Con l’affermarsi negli anni sessanta del pop-rock e del nuovo gusto giovanile il successo di Belafonte declina, ma continua una intensa attività di tour anche in Europa e in Giappone (e a Cuba). Il suo ultimo album all’insegna dei ritmi caraibici è nel ‘71 Calypso Carnival. Mentre è al Sudafrica e alla lotta contro l’apartheid che Belafonte dedica nell’88 il suo ultimo album di studio, Paradise in Gazankulu, con la partecipazione di molti artisti africani.