Interamente affidato alla presenza scenica di una esemplare Monica Piseddu, Accabadora ha radici arcaiche mentre riflette sull’etica del nostro presente. Tratto dall’omonimo romanzo di Michela Murgia (Einaudi, 2009), lo spettacolo (al Teatro India, fino al 4 marzo) è un intenso e asciutto monologo, diretto da Veronica Cruciani sulla drammaturgia di Carlotta Corradi, in cui la matrilinearità è assunta come codice di un processo culturale di trasmissione, non solo sanguineo, e di ricongiunzione tra nascita e morte. Verso il fondo, una parete granitica segna lo spazio illuminato da Gianni Staropoli per l’azione di Maria, che torna, con zainetto e jeans, al capezzale della madre adottiva morente, in un immaginario paesino della Sardegna, dal quale era scappata proprio dopo aver scoperto cosa si celasse dietro agli sguardi rispettosi dei compaesani al cospetto della sua adorata Tzia Bonaria.

Questo ripercorrere il suo passato di «ultima» di quattro figlie, non voluta per miseria e data in adozione alla sarta Bonaria Urrai, inizia con toni leggeri e distaccati, quasi in conflitto con la sacralità del momento terminale, ma poi la scrittura di Corradi (della quale Cruciani ha già messo in scena Peli) entra nella profondità del legame tra madre e figlia e diventa un percorso di formazione, forse solo interiore, doloroso ma necessario per arrivare all’accettazione del proprio essere donna. E fill’e anima – splendida espressione per dire in sardo adottata – con tutte le sue implicazioni, comprese dare la vita e, nel caso della sarta-accabadora, la morte. La delizia di cucinare insieme guelfos o pabassinos si coniuga con il gravoso compito di rispondere alla chiamata dei moribondi e andare di notte a portare loro una morte pietosa. Accabar – dallo spagnolo – finire, ecco il segreto di Tzia Bonaria che tutti conoscono e che ora Maria sta elaborando per diventare una donna adulta. E allora l’attrice, bellissima nella sua longilineità, che aveva iniziato a spogliarsi dei propri abiti contemporanei, inizia una sorta di vestizione rituale. Da una fessura nella parete – un taglio longitudinale con una protuberanza al lato – estrare e indossa la lunga gonna nera della Tzia e poi la blusa e la giacca, fino al grande fazzoletto nero che si pone in capo. Il passaggio è compiuto e il gesto finale sembra l’ultimo atto d’amore della figlia verso la madre. L’eutanasia.