Oltre a essere il più grave incidente nella vita sentimentale di Frida Kahlo, Diego Rivera è stato con José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros l’anima del muralismo messicano, ovvero di quella corrente artistica che nei turbolenti anni di formazione del Messico moderno ha privilegiato tematiche civiche e politiche realizzando pitture murali di grandi dimensioni, spesso in spazi pubblici.
A sessant’anni dalla scomparsa di Rivera e sulla scia della consacrazione di Frida a icona pop, giunge finalmente un’edizione italiana della sua autobiografia, intitolata La mia arte, la mia vita (Johan & Levi, pp. 220, euro 23,00, traduzione di Emilia Sala). Pubblicato postumo nel 1960 dietro approvazione finale della vedova, il libro è strutturato come una serie cronologicamente organizzata di aneddoti, raccolti dalla giornalista statunitense Gladys March nel corso di varie conversazioni con l’artista e con i suoi familiari e amici tra il 1944 e il 1957. Trattandosi di un’autobiografia è inutile aspettarsi imparzialità, ovviamente; ma qui si oltrepassano i limiti impliciti della narrazione soggettiva e fin dalle prime pagine si assiste alle mirabolanti peripezie di un pittore, corpulento e affetto da bulimia erotica, che nella scatola dei colori trasporta le munizioni per i partigiani.
La Vergine di Guanajuato
Tre gli argomenti principali: arte, politica e donne, non necessariamente in quest’ordine. Poco spazio all’introspezione, Rivera è prodigo di ricordi sugli amori (su tutti, quello per Frida), didascalico nell’illustrare le sue opere e categorico nelle opinioni politiche. Smargiasso affabulatore, rievoca i momenti importanti della propria esistenza cucendosi addosso i panni del predestinato, dell’eroe votato alla liberazione del popolo oppresso. Quando ha sei anni, una zia commette l’imprudenza di trascinarlo subdolamente nella chiesa locale a pregare la Vergine di Guanajuato; lui indignato arringa la folla dei fedeli per scuoterli dalla loro ottusa riverenza. «Ma dite un po’, questo timore fa forse in modo che i mendicanti, la povera gente, o i minatori disoccupati non entrino più di soppiatto nelle case dei ricchi, nelle drogherie, nei negozi di abbigliamento dei gabachos o nelle haciendas dei gringos per prendersi un po’ delle cose di cui hanno bisogno?».
Attivista in un’epoca in cui sembra impossibile non impugnare un’arma, ordisce un complotto per eliminare il dittatore Díaz ma poi opta per la ricerca di altri e più fini strumenti di lotta. «Magari, in futuro, dopo aver trovato la mia identità di uomo e di artista, sarei ritornato nella mia meravigliosa terra per insegnare alla gente ciò che doveva sapere». Purtroppo non sempre risulta facile inquadrare gli eventi e i personaggi del racconto sull’intricato sfondo storico messicano, che dagli anni della dittatura di Porfirio Díaz e della caotica Rivoluzione, dove il rivoluzionario di ieri diventa il tiranno di domani, si snoda attraverso i cruenti conflitti anticlericali dei cristeros, il governo di Lázaro Cárdenas e l’assassinio di Trockij, fino al posizionamento del Messico nello scacchiere della contesa tra USA e URSS all’indomani della Seconda guerra mondiale.
Quanto all’arte, pagato il suo tributo a José Guadalupe Posada, maestro della tradizione popolare messicana, all’arte preispanica e a Cézanne, Rivera approccia l’avanguardia europea con l’unica intenzione di «assimilare bene le diverse tendenze della pittura moderna per eliminarle dal mio linguaggio artistico»; in definitiva si reputa il miglior artista del suo tempo assieme a Picasso e Matisse.
In Europa Rivera trascorre diversi anni, a più riprese; la prima volta va per studiare e soggiorna in Spagna e a Parigi, dove partecipa a importanti rassegne come il Salon d’Automne e abbraccia il Cubismo, con successo di critica e mercato. Tuttavia, dopo la Prima guerra mondiale rigetta l’avanguardia in quanto sterile sofisticazione borghese e predica un ritorno all’ordine in chiave di realismo sociale; è la svolta. «La società del futuro sarebbe stata una società di massa e questo fatto presentava problematiche completamente nuove, il proletariato non era dotato di senso estetico, o meglio, il suo gusto si era sviluppato sul peggiore nutrimento estetico – le briciole e gli avanzi caduti dalle tavole dei borghesi. Sarebbe stata quindi necessaria un’arte tutta nuova, che non facesse più leva sulla sensibilità coloristica e formale dello spettatore: a suscitare emozioni dovevano essere i soggetti. La nuova arte, oltretutto, non avrebbe più trovato la sua collocazione nei musei e nelle gallerie ma in luoghi accessibili, frequentati dalla gente nella vita di ogni giorno: uffici postali, scuole, teatri, stazioni ferroviarie e edifici pubblici. E così, seguendo un percorso logico e teorico, arrivai alla pittura murale».
Italia fra sputi e proiettili
Tra il 1920 e il 1921 visita anche l’Italia, senza entusiasmo però: «Ero appena arrivato e già volevo ripartire. Non sopportavo, fra le altre cose, l’abitudine degli italiani di sputare ovunque, per strada, sulla nave, negli alberghi, al ristorante. Sputavano tutti, anche le signore più incantevoli e raffinate». A ogni modo, in Italia si ferma diciassette mesi e deve essere stata un’esperienza angosciante, considerato che gli italiani, quando evidentemente non troppo impegnati a sputare, si sparavano l’un l’altro: «Mi capitava spesso di sentire i proiettili che mi fischiavano nelle orecchie mentre disegnavo». Nel 1936 riceve tramite Margherita Sarfatti la proposta di Mussolini, «amico di vecchia data degli anni parigini», di sfuggire in Italia alle tensioni della politica messicana; declina gentilmente con una profezia: «Ringraziate Mussolini per l’invito, ma ditegli che sono abbastanza certo che, ancor prima di me, sarà lui ad avere un terribile bisogno di un luogo sicuro in cui rifugiarsi». Dopo la Seconda guerra mondiale, forse ancora disgustato dalla mania dello sputacchio, rifiuta anche l’invito del governo De Gasperi.
La premonizione è in effetti un’altra dote che Rivera non ha pudore di ascriversi. Nel 1928 assiste a un discorso di Hitler in piazza a Berlino e, nonostante lo scetticismo dei suoi amici comunisti tedeschi, vede subito con chiarezza il triste futuro che attende la Germania, perciò si offre volontario per liquidare seduta stante il problema: «Lasciate almeno che gli spari. Me ne assumerò la responsabilità. Posso ancora farcela a prenderlo». Questa straordinaria perspicacia è apparentemente anche l’origine di tutte le sue contrarietà con il Partito comunista, da cui viene espulso nel 1929 per aver dissentito con Stalin quando questi pronosticava l’ormai prossima e spontanea conversione dei paesi capitalisti al comunismo. Il travagliato rapporto con il Partito, alla cui affiliazione Rivera ha sempre tenuto molto, è proprio il punto in cui l’autobiografia sembra più reticente.
Comunque l’orientamento ideologico non impedisce a Rivera di esaltare la potenza industriale statunitense nei murales del Detroit Institute of Arts, o di gongolare per l’occasione di una personale al MoMA, né tantomeno di accettare commesse da Nelson Rockefeller – d’altronde, bisogna anche tener conto che in origine il libro usciva per un editore newyorchese. E ogni polemica suscitata dalle sue opere diventa per lui conferma della bontà della propria visione rivoluzionaria.
In appendice il volume contiene alcune testimonianze delle tante mogli di Rivera: Angelina Beloff, Lupe Marín, Frida Kahlo ed Emma Hurtado. Nelle parole di Frida la migliore sentenza: «Per Diego la pittura è tutto. Ama il suo lavoro più di ogni altra cosa al mondo. Di conseguenza non può avere una vita normale; non ha il tempo di pensare se ciò che fa è morale, amorale o immorale»