Karl Wilhelm Diefenbach in una delle ultime foto, nell’isola di Capri

 

Il Monte Verità ad Ascona, nel cuore del Ticino svizzero, ha aperto le sue porte con un appuntamento speciale: è tornato alla luce Il Chiaro mondo dei beati, il grande polittico di Elisàr von Kupffer (1872-1942) esposto nel Padiglione Elisarion, che suggella il completamento del Complesso museale. Un’opera di nove metri di tela circolare, un panorama che immerge il visitatore nella poetica di un artista unico nel suo genere, parte di un contesto quale la collina asconese, le cui segrete valenze furono ’rivelate’ da Harald Szeemann e dalla sua compagna.
Della comunità naturista fece parte Karl Wilhelm Diefenbach (Hadamar, 1851 – Capri, 1913), morto prima che iniziasse la mattanza della Grande guerra. Eppure nessun artista fu più estraneo alla politica e alla guerra, anzi la sua vita fu un rifiuto risentito del crogiuolo dei conflitti nazionali e sociali che segnano l’Ottocento. La sua pittura non eccelle per qualità di disegno o composta misura di forme, non si distingue per finezza di dettato o esuberanza cromatica, eppure queste tele così singolari, magmatiche, magnetiche sollecitano rimandi, sollevano interrogativi, insinuano ombre nell’animo di chi butta l’occhio su di esse. Gli eredi le donarono al Museo della Certosa di San Giacomo, Capri, e dal 1975 esse sono parte di questo ambiente conventuale non estraneo alla sensibilità dell’artista.
Le tele enormi, bituminose, rese tali da particolari miscugli di essenze naturali mescolate ai colori, sono il carattere distintivo della sua opera. Diefenbach, come uno della Confraternita di San Luca, ebbe una vita ritualmente monastica anche se aveva moglie e figli: una vita piena vissuta con frugalità e sentimento panteistico, in comunione con il sole, la terra, il mare secondo un modello culturale che attraversa in profondità la cultura tedesca e che spinse molti suoi compatrioti sulle coste tirreniche, ulissidi alla ricerca di una perduta, primigenia identità con la Natura.
Alle trentuno tele e alle cinque sculture in gesso che sono la dotazione permanente della Certosa si sono aggiunte tele appartenenti a collezionisti privati: uno sguardo d’assieme sull’opera di questo artista divenuto così naturalmente caprese per aver trascorso nell’isola dagli occhi azzurri gli ultimi tredici anni della sua vita. Anni decisivi e densissimi per la sua attività creativa, per la rigenerazione che qui visse la sua arte di paeseggista fuori le righe della tradizione simbolista ma intrisa di Egitto e di Oriente: infatti Diefenbach, dopo un esordio tradizionale a Monaco nei primi anni settanta, dove si guadagnò una certa reputazione, e dopo il successo che gli arrise a Vienna vent’anni dopo, volse le spalle a questo mondo delle città e della grande capitale del secolo.
La sua fu una scelta radicale contro l’arte dei Salons, contro il mercato brulicante attorno a essi, contro – naturalmente – la borghesia, nel corso di un secolo che vide affermarsi un nuovo ceto sociale che nella Grande Germania assunse toni e caratteri molto aggressivi. Ma essa elaborò i suoi anticorpi, che assunsero le forme languenti degli ultimi eredi dei Nazareni, quelle epiche dei Deutsch-Römer, quelle più dimesse e domestiche del Biedermeir. Un mondo che Diefenbach conobbe assai bene, ma col quale intrattenne rapporti di necessità, e dal quale si allontanò definitivamente viaggiando per la Turchia e l’Egitto dopo aver lasciato Vienna.
Seguendo, magari con l’aiuto del libro di Silvana Todisco K.W. Diefenbach. Omnia vincit ars (Electa Napoli, 1988), le tappe della sua biografia, costellata di successi, ma anche di gesti clamorosi che lo condussero persino in carcere e lo videro al centro di violente campagne di stampa contro lo scandalo costituito dal suo modo di vivere, dalla sua teosofia e dal suo nudismo, si capisce come fosse per lui naturale l’approdo nella comunità di Monte Verità ad Ascona, presso la quale risiedè maturando il proposito di abbandonare una società che giudicava corrotta e filistea. Queste ragioni, in primis la sua vocazione alla frugalità vegetariana, il naturismo, l’inclinazione al taoismo, il bisogno di condurre una vita da vagabondo – in realtà più giocata letterariamente che reale – fanno di lui un eroe pre-hessiano, una specie di Demian avant la lettre.
Ma a Capri, e non ad Ascona o a Mantognala, Diefenbach pose la sede della sua ultima dimora e una lapide, semplice, lo ricorda nel cimitero dell’isola. Nelle foto che si conoscono il pittore veste sempre il saio di monaco laico e panteista, circondato dai figli Helios, Lucidos e Stella, o in compagnia del suo allievo Fidus: tutti nomi dalle evidenti implicazioni simboliche. E in effetti il simbolismo è parte integrante di un universo stralunato in cui si rinvengono tracce di Caspar David Friederich, a cui tuttavia sarebbe stolto accostare il nostro: il suo simbolismo è retorico, scadente nella resa e allusivamente vago, è la parte più caduca della sua pittura.
In questo ambito alcune tele offrono segni e referenze che meritano d’essere posti in luce. Invocazione presenta una scena notturna con mare e cielo, e sulla sinistra un portico bagnato da una luce diaccia, lunare: qui il rovinismo spettrale e inquitante di Diefenbach assume altre sembianze: il mare diviene rovina, il cielo tempesta. Nel Castello di Miramare una luce albale ritaglia il profilo del maniero che si erge sulla costa triestina: una luce fredda, da stelle del nord, con verdi cupi che ricordano talune atmosfere bellottiane. Diefenbach, insomma, è pittore non affatto naïf, anche se inclina a farlo credere per certe sue calcate simbologie che verrebbe voglia di cancellar dalla tela: qui una croce, memento Friederich.
Ben più interessanti talune tele di più acconce dimensioni in cui il pittore si misura con topoi, pur tanto illustrati, dell’isola. Mare in tempesta vien fuori tutto da un’attenta rilettura di Turner: mare, spruzzi d’acqua, fluire d’onde tra scogli intarsiati dal soffio furente del vento e della pioggia. In una tela di solo 39 x 49 centimetri illustra via Krupp a Marina piccola: si snoda questo nastro di pietra come una serpe nel corpo rovente della roccia, sul fondo il crepitare azzurro, cilestrino, smeraldo delle onde del mare sulla costa, poi il sembiante dolomitico del Solaro che si erge a dominare la scena. Capri nella nebbia e Capri al tramonto sono dei sottili profili delle verdeggianti piane tra Cetrella e la Migliara: sul fondo il profilo della penisola sorrentina. Nuvole vagano tra queste rocce che emergono sull’infinito, come un cratere lunare che non dispiacerebbe al Kubrich di Odissea nello spazio. Nell’altra tela gli azzurri e i verdi si sono fatti bruni e un velo di porpora tinge il cielo.
L’intensità di queste piccole tele ci dice che Diefenbach fu un pittore dalla voce autentica, che seppe dire parole non banali su temi che erano già a quel tempo stati intaccati dall’erba maligna del luogo comune. Ebbe un controllo limitato dei propri mezzi, la sua vocazione predicatoria annebbiò la sua musa, la sua tavolozza si ingolfò di terra e di erbe, la sua intelligenza rimase inpigliata nella rete tessuta con ben altra sapienza da Olidon Redon. Ma pure nel grande profilo che dispose sulla sua casa accanto alla funicolare di Capri c’è un’eleganza tra Neoclassico e Secessione viennese: un lungo fregio con bambini che danzano, uccelli che volano, alberi, cespugli, rocce, un corteo devozionale che si chiude con una sfinge, ricordo imperituro dell’antico Egitto.
Artista versatile e irrealizzato fu Diefenbach, mai banale, né oziosamente superfluo.