In un’intervista del 1999, Daniel Barenboim mi annunciava il festival con cui la Staatsoper unter den Linden di Berlino avrebbe festeggiato la fine del XX secolo e del secondo millennio: «alla fine del secolo – diceva – mi interrogo su cosa sia stata l’ esperienza del moderno». Fuori del teatro, una folla immensa dalla Porta di Brandeburgo fino alla facciata del teatro, protestava per i bombardamenti della Nato su Belgrado. Tra le musiche di oggi, c’era What next?, un’opera in un atto commissionata dal teatro a Elliott Carter, di cui ricorre ora il decennale della morte, la sua prima e unica opera. Libretto, splendido, di Paul Griffith, critico musicale del Times di Londra.

La vicenda è presto raccontata. Quando si apre il sipario c’è già stato un incidente automobilistico. Sono tutti morti, ma non lo sanno. E litigano tra di loro, come quando erano in vita. Arrivano le ambulanze, gli spazzini spargono sabbia sul sangue dell’asfalto, e finalmente le vittime dell’incidente si rendono conto di essere morte. Un bambino sbuca dalla fossa dell’orchestra, sale sul palcoscenico e grida: «What next?». Sipario. Il nuovo millennio è annunciato da una catastrofe. Visionario, e profetica anche la manifestazione. Oggi altre bombe candono su altre città. Perfino nei dati della cronaca Elliott Carter è testimone straordinario del proprio tempo. Un intero secolo scorre nella sua memoria. Nel 1924 conobbe Charles Ives, e ne divenne amico. Entrò in contatto con la musica di Edgar Varèse e di Bartók.

Studiò, dal 1930, a Harvard, e conobbe, tra altre figure della musica americana, Walter Piston che gli insegnava armonia e contrappunto e Gustav Holst, che lo perfezionò nella composizione. Ma essenzialmente Carter era un autodidatta, curioso di quasi tutto lo scibile umano. Come molti altri musicisti americani era stato attratto da Parigi e dalla cultura francese. Era stato allievo di Nadia Boulanger. Affascinato da Stravinskij, sia quello selvaggio del Rito della primavera (Sagra è una traduzione sbagliata di Sacre) e dal neoclassicismo francese, di cui gli sarebbe restata l’ossessione per una organizzazione complessa e multiforme del ritmo. Hindemith. La scuola di Vienna, soprattutto Webern, si aggiunsero alle molteplici possibilità di costruire un «discorso» musicale, mentre restò piuttosto estraneo alle idee avanguardistiche di Darmstadt. Nel secondo dopoguerra aveva, infatti, già definitivamente costruito il proprio sistema. L’impasto armonico di un singolo accordo può diventare la cellula generatrice di un componimento, la cui articolazione si affida alla scansione intricata del ritmo. Della sua curiosità culturale è emblematico che dal 1939 al 1941, insegni musica, matematica pura e greco antico al St-John’s College di Annapolis, nel Maryland. Curiosità che lo associa ad altri grandi intellettuali statunitensi, suoi contemporanei, Eliot, Lowell, James, Harrison.

Non si dimentichi che uno dei massimi studiosi di Dante è l’americano Singleton, per il quale, come per Carter, e in opposizione a Croce, è proprio l’organizzazione dell’opera, la sua struttura, a dare il senso del valore e della poesia dell’opera. Tipica è anche, però, la libertà con cui si associano procedimenti e modi di costruzione musicali, che sembrerebbero divergenti. L’unità dell’opera non è data dall’omogeneità stilistica della costruzione, bensì dal coesistere di più modi di scrittura, che tuttavia non generano eclettismo, incoerenza, proprio perché sorretti insieme da un rigoroso calcolo di compenetrazione. Forse l’insegnamento più proficuo che ci lascia la musica di Carter, al di là del godimento estetico che suscita sta nel fatto che ogni scelta univoca è limitante, e che invece le diverse e perfino divergenti sollecitazioni vanno tenute insieme da un’organizzazione che ne giustifichi l’assembramento. Un intero secolo ci parla così attraverso la sua musica.