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Diderot, vagabondaggi intellettuali di un apologeta del caso

Diderot, vagabondaggi intellettuali di un apologeta del casoUna miniatura francese della serie che tra 1790-1820 si diffuse un po’ in tutta Europa, prendendo a modello quella ricevuta dal futuro re George IV, che dell’amata riproduceva, per non rendersi riconoscibile, solo l’occhio

Classici riediti Chi voglia emanciparsi dalla screditata immagine dell’enciclopedista geniale ma improvvisatore, e verificare il solido impianto del suo pensiero, può contare ora sulla prima edizione italiana adeguata alla grandezza del filosofo e dello scrittore: Bompiani

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 26 gennaio 2020

«Mes pensées, ce sont mes catins», «i miei pensieri sono le mie puttane»: con questa famosa immagine che si legge all’inizio del Nipote di Rameau, Diderot rappresenta plasticamente il momento di transizione del concetto di «libertinaggio», che dall’originario significato di libertà di pensiero (soprattutto in ambito religioso) andava assumendo quello oggi prevalente di dissipazione erotica, esaltandone la tensione eversiva: per la mente (l’esprit) del filosofo non c’è alcuna idea sacra che meriti eterno rispetto; tutte le donne sono seducenti e seducibili per il libertino, come lo sono tutte le idee per il philosophe. Questo non significa che non si debba mai prendere partito (altrove, Diderot utilizza una metafora cinegetica, per deprecare gli autori indotti dal loro «naso libertino» a rincorrere tutte le lepri); solo che le idee davvero importanti, come le donne che contano, non sono quelle cui si è legati da un vincolo inviolabile, ma quelle a cui si finisce sempre per far ritorno, quelle che non si può fare a meno di amare: «pensateci bene – si legge nel Sogno di D’Alembert – e vi accorgerete che il nostro vero convincimento non è quello in cui non abbiamo mai vacillato, ma quello al quale siamo tornati più spesso».

Un materialismo scritto
Ne derivano due caratteristiche salienti: la molteplicità di interessi animati da una vorace curiosità intellettuale, analoga a un’insaziabile libido erotica (non a caso gli càpita di paragonare la natura che sta di fronte allo scienziato ad una donna che mostrando ora una parte ora un’altra del proprio corpo alimenta nell’amante la speranza di poterla contemplare nuda), e una scrittura aperta al dialogo con la parola degli altri, di volta in volta criticati o celebrati, citati e recitati, mimati o parodiati. Quest’uomo, che per la generalità dei suoi contemporanei era il coraggioso (o lo sfrontato) direttore della grande Encyclopédie, nonché l’autore di una tentata riforma drammaturgica, in realtà si occupò di musica, di biologia, di arte, persino di matematica e, ovviamente, di filosofia, anche se gran parte dei testi filosofici, dopo che la Lettera sui ciechi gli era costata tre mesi di prigione, restarono clandestini, circolando soltanto manoscritti, in quanto espressioni di un pensiero risolutamente ateo e materialista. Ma, di nuovo, senza alcun dogmatismo: lo testimoniano, anche a riprova dell’articolata complessità del materialismo illuminista irriducibile a un’etichetta generica, la polemica con Helvétius, per il quale la coscienza è determinata in ultima analisi dai condizionamenti ambientali, mentre l’enciclopedista sostiene l’influenza determinante dei fattori genetici, oppure la dichiarata antipatia nei confronti di La Mettrie, il cui spudorato edonismo rischiava di portare acqua alla polemica pretesca che fa dell’ateismo la radice di ogni immoralità.

D’altra parte Diderot è stato anche uno straordinario scrittore, tanto che la critica reazionaria, forte tra l’altro del fatto che l’enciclopedista (diversamente dall’amico d’Holbach) non ha scritto trattati sistematici, tentò ripetutamente di distruggere il filosofo per salvare il grande artista, come se il suo pensiero fosse separabile dalla sua espressione: ora se il rifiuto di ogni metafisica comporta il rifiuto del suo linguaggio, non c’è dubbio che il materialismo di Diderot poteva solo essere scritto (nel senso di Derrida), cioè affidato a una testualità irriducibile alle categorie filosofiche dominanti, e che, privilegiando il modo dialogico, ne mima felicemente gli scarti spontanei e le divagazioni incontrollate.

A conferma, tuttavia, dello spessore teoretico anche di un breve testo (una «satira» l’ha chiamata l’autore) come Il Nipote di Rameau, basti ricordare che, tradotto da Goethe e pubblicato in tedesco nel 1805 (prima che in francese), fu poco dopo utilizzato da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito. E da allora questo capolavoro dialettico che inscena una poco accademica conversazione tra il filosofo e un musicista fallito che vive da parassita, non ha smesso di sollecitare, per i suoi contenuti filosofici e per la sua dimensione letteraria, l’interesse di illustri lettori come Marx e Freud, Ernst Curtius o Leo Spitzer, Michel Foucault o Jean Starobinski.

Tra Goethe e Starobinski
Del resto chi voglia dissipare la screditata immagine di un Diderot geniale ma disordinato improvvisatore, e verificare il solido impianto del suo pensiero, può affrontare la lettura, impegnativa ma succulenta, dal primo volume delle opere curato da Paolo Quintili e Valentina Sperotto: Opere filosofiche. Romanzi e racconti (Bompiani, Il pensiero occidentale, con testo francese a fronte, pp. 3180, € 80,00, cui seguirà un secondo volume), edizione che, senza togliere nulla alle precedenti (per esempio, il volume delle Opere filosofiche, curato da Paolo Rossi nel lontano 1963) è la prima edizione italiana davvero adeguata alla grandezza del pensatore e dello scrittore.

Il gusto della divagazione e del vagabondaggio intellettuale, l’amore del paradosso provocatorio, il ritmo indiavolato del dialogo che Spitzer ha paragonato alle pause e alle accelerazione dell’atto sessuale, sono caratteri stilistici che il filosofo volentieri ostentava, ma – come insegna il brillante Paradosso sull’attore che afferma, in anticipo su Brecht, il carattere di fredda imitazione delle emozioni esibite sul palcoscenico – sono anche una messa in scena. Daddove Goethe ha sottolineato la solidissima struttura del Nipote di Rameau paragonandola a una catena di ferro nascosta in una collana di fiori, per Starobinski le pagine iniziali di Jacques il fatalista sono sufficienti ad accorgersi con quanta abilità l’enciclopedista prepara la solida trama su cui si disegna l’«arabesco» (come lo chiamò Friedrich Schlegel) apparentemente caotico di quel romanzo straordinariamente moderno, perché il tema del fato e della libertà, discusso dai due protagonisti, attraversa da parte a parte i diversi strati del testo, sconvolgendo tutte le regole della narrazione classica.

Il coté moralista
Se il genere del romanzo, che racconta il destino dei personaggi intrecciati in una vicenda che si pretende esemplare, è in qualche modo sempre l’immagine di un mondo retto dalla provvidenza, in cui nulla avviene a caso (o, che è la stessa cosa, in cui il caso interviene a spezzare l’ordine o a restaurarlo), allora un romanzo ateo, che nega la provvidenza e afferma il trionfo di un caso che nessuno può controllare, non può che mettere in discussione la stessa istanza narrativa, raccontando soltanto una concatenazione di eventi senza un fine e senza una causa prima che ne determinino il senso, persino senza un inizio e una fine definiti (la narrazione termina con tre diversi finali che il lettore è libero di scegliere). E ciò che vale anche per la vicenda dei rapporti tra il narratore e il lettore, analoghi alla relazione tra il protagonista Jacques e il suo padrone, indissolubilmente legati dalle passioni, ora complementari ora conflittuali, del primo di raccontare e del secondo di ascoltare. Jacques è, insomma, un romanzo che ci parla anche della dialettica servo/padrone declinata nel rapporto tra il potere di chi parla e quello di chi ascolta, tra chi scrive e chi legge, più che mai attuale nell’odierna civiltà delle telecomunicazioni.

Certo accanto al Diderot libertino, per il quale il buon selvaggio non conosce il tuo e il mio (e nemmeno la proibizione dell’incesto: ciò che ha procurato all’enciclopedista un severo rimbrotto da parte di Lévi-Strauss), c’è anche il moralista che, soprattutto negli scritti teatrali e nella critica d’arte, si fa predicatore delle virtù borghesi in antitesi al frivolo stile di vita aristocratico e sogna una società laica in cui i templi sarebbero sostituiti dai teatri e le funzioni religiose da spettacoli che impartiscono lezioni di etica civile. Questo Diderot, le cui manifestazioni più importanti compariranno nel secondo volume, è piuttosto un costruttore che un critico di ideologie, anche se l’istanza profonda, e ancor una volta attualissima, della sua riflessione morale è il tentativo, perseguito per tutta la vita, di dimostrare che per essere felici basta essere virtuosi.

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