«L’immaginazione è una facoltà che si affatica presto e ha bisogno di ristoro. Tuttavia, il cibo appropriato a un’immaginazione spossata non è poesia o fiction di ordine inferiore ma l’‘informazione autentica’ della quale è fatta ogni buona biografia. Nel raccontare i fatti autentici, nel setacciare il piccolo dal grande, nel dar forma al tutto, consentendoci di percepire un disegno, il biografo può fare molto più del romanziere o del poeta per stimolare l’immaginazione. Ci dà il fatto creativo, il fatto fertile, il fatto che ispira e provoca»: così scriveva Virginia Woolf in The Art of Biography, illuminante riflessione sul ruolo della biografia nella vita culturale di un paese, pubblicata a pochi mesi dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale sull’Atlantic Monthly, la storica rivista americana fondata da Ralph Waldo Emerson.

Già autrice, con Orlando, di una singolare biografia transgender dell’Inghilterra, nel 1939 Woolf collocava la scrittura biografica in un regime di libertà vigilata, a metà strada tra la documentazione storica e la creazione artistica, e ne celebrava le doti balsamiche nei confronti dei disordini eccitativi generati dalla produzione e dal consumo della letteratura di finzione. Non solo, in quel saggio cruciale – come d’altronde già in Orlando – Virginia Woolf includeva la biografia nel patrimonio genetico della cultura inglese moderna (e protestante) caratterizzata da uno spiccato interesse per le vite degli individui comuni, «per il proprio io e per quello degli altri».

In vista dei 150 anni
Nel 1990, in uno scenario già attraversato dallo spirito della Brexit, e con tutti i crismi dello scrittore navigato, Peter Ackroyd resuscitava questa idea romantica e delicatamente parrocchiale della scrittura biografica intesa come regolatore della tensione immaginativa della nazione moderna, offrendo al pubblico anglofono una suggestiva biografia di Charles Dickens. A tre decenni di distanza, il corposo volume viene proposto al pubblico italiano da Neri Pozza nell’accurata traduzione di Luca Briasco e Simona Fefè, in vista del centocinquantenario della morte dello scrittore britannico forse più rappresentativo di tutti i tempi: Charles Dickens (pp. 587, € 25,00).

Per essere l’affresco esistenziale di uno scrittore che «ha fatto della reticenza una delle chiavi di tutta la sua vita», lo studio di Ackroyd è fin troppo loquace. Ogni dettaglio, ogni circostanza, ogni singolo passaggio esteriore della vita di Dickens viene scrupolosamente catalogato e passato al vaglio, anche avvalendosi dei numerosissimi studi a disposizione sull’argomento. Da questo punto di vista, questo Dickens del terzo millennio soddisfa pienamente le condizioni di fattualità e verificabilità invocate da Virginia Woolf per le buone biografie. Scopriamo, dello scrittore inglese, la passione per la pantomima e le imitazioni, per la stenografia e le liste di nomi propri; l’ossessione per le gambe di legno; la «latente paura infantile per i morti resuscitati»; le estenuanti contrattazioni con direttori di giornali, editori e disegnatori; le peregrinazioni notturne attraverso «la grande e selvaggia distesa di Londra», a caccia di «emblemi di un nuovo ordine, alieni e carichi di mistero».

Seguiamo i nevrotici passaggi da una casa all’altra, in fuga da un’ombra paterna mai abbastanza esorcizzata, e alla ricerca di un luogo capace di integrare il bisogno di isolamento di un forzato della scrittura, strangolato dalle scadenze imposte dalla pubblicazione a puntate, e la necessità di spazi adatti a una famiglia in espansione illimitata che, con i suoi dieci figli, ha dato gran lustro all’ethos inaugurato dalla regina Vittoria (sua grande sostenitrice).

Restiamo sconcertati dal resoconto degli sforzi sovrumani costati al giovane Dickens per forgiare un pubblico di lettori non colti, che non esisteva prima del suo avvento e aspirava al riconoscimento in un’Inghilterra da poco industrializzata e indifferente alle masse urbane che si immedesimavano nelle storie di povertà e abuso raccontate nei suoi romanzi. Siamo ammirati dalla resilienza fisica e mentale esercitata nei viaggi oltreoceano, così come nei lunghissimi tour di letture pubbliche nelle quali, esausto e ammalato, lo scrittore si è fino all’ultimo dato in pasto a un uditorio già tutto interno alle logiche dello star system.

Infine, dopo essere stati catturati nella fitta rete di ricostruzioni tessuta da Ackroyd con la sensibilità del critico letterario avvertito, poco incline – tuttavia – all’ermeneutica del sospetto o ad arzigogoli decostruzionisti, ne abbracciamo quasi automaticamente le tesi: «Dickens vedeva la commedia ovunque ed è il più grande scrittore comico in lingua inglese»; «Dickens spiegò il mondo a chi lo abitava già»; «Dickens impersonò il periodo da cui trasse origine»; «Ha senso affermare che il suo genio particolare sia stato capace di rappresentare e unire più aspetti del temperamento inglese di quanto abbiano fatto altri autori del suo tempo». Tanto basta, oggi come allora, per ritenere Charles Dickens uno dei principali artefici dell’Occidente moderno – e tanto sarebbe bastato anche a Virginia Woolf.

Tuttavia, se nulla di questa esistenza spesa all’insegna di una spericolata energia creativa viene taciuto dall’Ackroyd biografo, per l’Ackroyd romanziere, che va dritto all’essenza, le cose stanno diversamente, e l’individuo Dickens si sottrae a ogni pretesa definitoria. Proprio come il personaggio di una delle sue storie, «tagliente, esuberante, incline alla malinconia e proclive all’angoscia, preoccupato dal mondo materiale e allo stesso tempo perseguitato da visioni trascendenti», questo Dickens impone la propria presenza distonica attraverso un racconto di formazione che afferma la forza dell’io solo per sfaldarla sistematicamente, le cui fila il biografo è costretto a manovrare con delicatezza estrema.

«Il fatto è che c’è un’afflizione, un’afflizione intima, quasi una freddezza, legata ad alcuni aspetti della vita di Dickens su questa terra, per certi versi analoga all’afflizione e alla freddezza che si intravedono nel nucleo delle sue opere. Se andiamo oltre, al di là dello sfavillante mondo vivo fatto di luci, cosa troviamo? Se ci immergiamo più a fondo, negli abissi insondabili, che cosa vediamo di Dickens? Oggetti smarriti, colati a picco, schiacciati e irriconoscibili. Tenebre e silenzio. Strane sagome fosforescenti. È questo che intendeva Thomas Carlyle? Un uomo la cui luminosità racchiudeva la presenza della morte?»

Wordsworth dimenticato
È nell’indagine emotiva e mai dogmatica di questa presunta afflizione originaria, sempre pronta a riemergere a ogni successo per destabilizzare tutte le certezze del grande scrittore, che il libro di Ackroyd svela la qualità meno commemorativa e più intimamente conoscitiva dell’ottima biografia. Un’afflizione radicata nel vissuto infantile della detenzione per debiti del padre, dello stigma sociale, dell’umiliazione del lavoro in fabbrica, della mancanza di un’istruzione regolare, ed elaborata in una poetica della memoria individuale e collettiva che diventa, quella sì, autentico contrassegno dei tempi moderni.

Una memoria tardo-romantica che è incessantemente negata e riaffermata, già attiva nelle prime opere ma messa a punto dalla pubblicazione di David Copperfield, intorno alla quale si deposita il sentire autoconsapevole e non trionfalistico di un’epoca di compromessi e grandi speranze generata da profonde lacerazioni col passato.

Per questa ragione, stride dover imputare a Peter Ackroyd la grossolana omissione di William Wordsworth, il poeta che più di ogni altro nell’Inghilterra ottocentesca ha fatto della memoria la chiave di accesso a quel mondo traumatizzato tanto quanto vitale. Nel 1850, a ridosso del Copperfield, usciva postumo The Prelude, autobiografia non autorizzata di una generazione di artisti delusi dalla rivoluzione giacobina e precocemente ricondotti nell’alveo delle sobrie certezze nazionali. Di quella generazione illusa e delusa quasi nello stesso momento, benché Ackroyd sembri non avvedersene, Wordsworth e Dickens incarnano senz’ombra di dubbio l’eredità più duratura e irradiante.