«Intendere nei suoi principî la logica dell’opposizione che, prima di attestarsi nel pensiero riflesso, era già nella religione e nel mito, significa intendere la logica e i principî di tutta la civiltà greca». Così scriveva Carlo Diano in una delle prime pagine dello splendido saggio, scritto nel 1954, e rielaborato vent’anni dopo, Il pensiero greco da Anassimandro agli Stoici (oggi Bollati Boringhieri, con un’introduzione di Massimo Cacciari): quell’opposizione, che fu «denunciata in termini ancora mitici da Nietzsche» e non poteva dunque essere compresa nei nomi «presi a prestito» delle due divinità artistiche, né della scultura e della musica, o nelle esperienze del sogno e dell’ebbrezza, ma attraverso le categorie fenomenologiche e storicamente articolate della forma e dell’evento.
Pubblicato nel 1952 – dapprima nel «Giornale Critico della filosofia italiana» e poi come volumetto dell’elegante collana di Neri Pozza «Problemi di critica antichi e moderni» – Forma ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco custodisce sicuramente il nucleo dell’avventura speculativa di Diano e rappresenta uno dei punti più alti della produzione filosofica del secondo Novecento. Ristampato nel 1960 e nel ’67, affiancato nella stessa collana dal suo svolgimento naturale, Linee per una fenomenologia dell’arte (1954), questo «petit livre étonnant» (Pierre Vidal-Naquet) era poi riapparso da Marsilio, nel 1993, con un ampio saggio di Remo Bodei, che lo presentava come un classico «particolarmente apprezzabile di fronte alla quantità di cascami culturali che da tempo si accumula davanti ai nostri occhi». Poi l’ammasso repulsivo è cresciuto come si sa a dismisura, e la gemma è diventata introvabile.
Ora però sono in preparazione da Bompiani le Opere (a cura di Francesca Diano, con saggi di Cacciari e Silvano Tagliagambe), mentre già salutiamo l’uscita di Form and Event Principles for an Interpretation of the Greek Word (trad. di Timothy C. Campbell e Lia Turtas, introduzione di Jacques Lezra, Fordham University Press, pp. 144, $ 25,00). Se lo stile ispirato di Diano, insieme elegante e «di nervosa asciuttezza» (Bodei), è reso qui in modo ammirevole, il testo di Lezra (l’autore di Unspeakable Subjects. The Genealogy of the Event in Early Modern Europe) ha molti meriti: situa la nozione di «evento» rispetto alle più recenti teorie di Deleuze e di Badiou, distingue la «forma» dall’omonimo principio dell’attualismo fascista di Gentile, e la stessa opposizione fondamentale dalle altre coppie attraverso cui i pensatori e gli studiosi hanno compreso la grecità: «mito e tragedia» (Vernant, Vidal-Naquet), «forza e equità» (Simone Weil), «anima e spirito» (Kelsen, o diversamente, si potrebbe aggiungere, Klages).
La tecnica filologica acquisita al magistero di Giorgio Pasquali fu animata in Diano da una sicura ispirazione filosofica – simpateticamente epicurea o genuinamente platonica (si pensi alle pagine stupende, del 1970, sulla chora nel Timeo), gentiliana o tratta dall’analitica di Heidegger – ma fu anche nutrita dai risultati della scienza del mito e delle religioni (da Usener a Lévy-Bruhl, da Nilsson e Van der Leeuw) e, non da ultimo, dalla teoria riegliana del Kunstwollen. Come disse un suo amico fraterno, lo storico dell’arte Sergio Bettini, il lavoro sui significati era per lui necessario ma insufficiente: «occorreva (…) passare dalla langue alla parole, e (…) farla risuonare, percuotendola come si percuote un diapason, per sentire come vibri», occorreva cioè «porter parole» sull’«indeducibile» segreto dell’arte, di fronte al quale l’analisi deve spingersi, e arrestarsi. E ricordando Diano, Bettini usava il noi, richiamava il «nostro problema», parlava dell’altro o di sé. Poiché quel che rende tale un’opera mi colpisce in modo così singolare, si fa talmente mio da infrangere le proprietà del soggetto e del linguaggio. L’arte, intesa nel senso più ampio del fare umano, è contemplabile ma insieme vissuta, è forma, visibile, luminosa, ma anche esistenzialità, è l’ineffabile evento di quella visione.
Studiare e tradurre erano così per Diano una sola cosa: contemplare la lucente visibilità dell’opera, e coglierne e tentare di renderne insieme le singolarissime vibrazioni che a volte, senza turbare la chiarezza della forma, «possono essere anche di tenebra», come nel trionfo di Achille su Ettore. E per rendere quella vibrazione ineffabile sembrava che egli «cantasse dentro di sé le parole, greche, od italiane, o francesi, che fossero» (ancora Bettini).
Fu così che dai primi anni quaranta Diano iniziò a testare il diapason di una parola fra tutte: evento, ovvero tyche. «Fermiamoci a esaminarla (…) La parola è aoristica, designa il fatto nel suo momentaneo accadere». Che appaia in Esiodo come personificazione dell’azione divina per poi staccarsene, sotto l’influsso di Anassagora, nell’accezione tautologica del caso (che non risale alla tyche di Zeus ma accade perché accade, senza causa all’infuori di sé); che discenda quindi fra la folla per farsi a sua volta divinità popolare, o infine si riavvicini al primo significato come tyche-destino, che si isoli – con i Cinici – nell’immediatezza del fatto o si inserisca – per gli Stoici – in un processo ciclico, l’evento non sarà comprensibile se non come categoria fenomenologica: è contingente, particolare, improrogabile, tocca l’uomo e suscita in lui stupore e angoscia. Sua è perciò la sfera dei presagi, degli indovini e degli astrologi, della mantica o della religiosità babilonese che filtrata dalle categorie greche dell’essere e dai sistemi di Zenone e Crisippo potrà penetrare nel mondo latino: «Se volete il “qui e ora” degli Stoici, individuale insieme e totale, puntuale e continuo, guardate alle volte e agli archi, dove l’unità si media nella relazione, e lo spazio si muove col tempo, un tempo ciclico, che abbraccia il mondo e lo chiude: l’architettura di Roma».
Ma l’evento non è solo, e non è quindi mai solo evento: colpisce l’uomo, e questi reagisce, e per dominarlo lo nomina o lo chiude, appunto, nella forma. Così farà Aristippo, concependo la vita come un gioco di maschere, umbratili e mutevoli, e che però «sono forme: sono»; e così Epicuro: rendendo imperturbabili gli dèi ne eternizza la forma, insegnando agli uomini la saggezza del limite riduce l’esposizione alla potenza dell’ignoto. Dalla concezione della forma come mezzo del piacere, Diano risale poi alla forma fine a se stessa, cioè al senso più greco della realtà, separata da Platone in un cielo «dove non sono tempeste e non balenano eventi», isolata da Aristotele nell’olimpo contemplativo dell’intelletto o nella logica del sillogismo categorico.
E nelle forme stesse la forma non smette di affrontare l’evento, e ora prevale l’una, ora l’altro – come in Omero. Le forme sono chiuse e fra loro non c’è rapporto se non di forza: di questa Achille è l’eroe e le divinità maschili dominano l’Iliade. Mediazione, tecnica e astuzia sono invece le armi di chi agisce in vista dell’evento, sotto la tutela di Atena o della «buona tyche», in un’atmosfera di «metamorfosi e magia», di seduzioni e miracoli. E se Achille muore giovane, poiché la forma non muta e nell’urto con l’evento si spezza, se egli anzi può solo essere libero di andare incontro alla morte, il riflessivo e vecchio eroe dell’Odissea finisce ucciso per errore da un figlio sconosciuto. L’ira e la pazienza; il quadrato, scultoreo Achille e il «pittorico», cangiante Ulisse: la logica della grecità è la storia di queste due anime, che «convergono e si sublimano in Socrate».
E Diano? È stato il filosofo e il filologo della tyche, come ha scritto ancora Bettini: sapeva «affondare la sua affilatissima sonda in un punto, spesso una sola parola dell’universo linguistico e poetico della Grecia antica; ma da questo stigma s’allargava, per aloni concentrici, fino ad includere tutto l’universo, e da questo perièchon rifluiva a ridare sostanza e significato a quel punto d’origine». Non c’è immagine più definita e felice – ossia più vicina, per un paradosso solo apparente, a quella che Diano ha offerto della forma: «Una statua greca della fine del VI o della prima metà del V secolo (…) ha intorno a sé un alone, come un’aureola luminosa, che crea una tensione al limite e in pari tempo lo chiude e fa della figura una cosa assoluta (…) Quella è la forma, ma non è cosa eterna, vien dall’interno, dal centro, e ritorna al centro».