Considerato a lungo terra di grandi poeti, il Cile ha visto a volte oscurato il suo patrimonio narrativo, che fin dalla seconda metà dell’Ottocento è stato ancorato fortemente alla realtà, indagata da svariati punti di vista: la marginalità sociale in Manuel Rojas, i drammi comunitari in Marta Brunet, il disfarsi della borghesia oligarchica in José Donoso, per approdare  più recentemente alle prove di Roberto Bolaño, scrittore cosmopolita con radici cilene mai dimenticate.

Negli anni Ottanta, all’ombra di una dittatura con un sistema di potere ormai consolidato, un gruppo di artisti e intellettuali diede vita al Cada (Colectivo de Acciones de Arte), laboratorio di performance che tentava di incidere su una realtà drammaticamente bloccata. È all’interno di questo collettivo che si formò la scrittura di Diamela Eltit, il cui esordio romanzesco, Lumpérica, datato 1983, ebbe un forte impatto sulla letteratura cilena. Ambientato in una notturna piazza di Santiago illuminata dalle luci intermittenti degli annunci pubblicitari, il romanzo, frammentato e polifonico, vede al centro una figura femminile che dialoga con strane presenze della notte, mentre la scrittura evoca costantemente immagini con una forte carica simbolica, in una sfida continua con il lettore. La sfida si ripeterà in ognuno dei nove romanzi seguenti, tutti diversi tra loro per temi e ambientazione: nei tre titoli tradotti in italiano, Eltit ha indagato l’universo ospedaliero (Imposto alla carne, 2010) il mondo alienante dei supermercati (Manodopera, 2012) e la stanza chiusa in cui si consumano illusioni perdute (Mai e poi mai il fuoco, 2007). Inoltre, come segnala Laura Scarabelli nell’introduzione ai saggi raccolti in Errante, erratica (Mimesis, 2022), tutta la narrativa di Damiela Eltit è connotata dal «continuo rielaborare e ripensare la differenza attraverso la tensione di una parola che esce da sé, nell’intento di sradicare i modelli unici e totalizzanti di rappresentazione del mondo». 

Ripercorriamo con l’autrice cilena alcuni passaggi della sua parabola narrativa e saggistica, approfittando del suo recente passaggio in Italia. 

Molti insistono nel legare la sua scrittura al tema della marginalità: lei descrive per esempio i commessi e gli impiegati in «Manodopera», e rende protagonisti del suo ultimo romanzo, «Sumar», i venditori ambulanti. Dagli anni Ottanta in cui lei ha esordito, molto è cambiato e nella società attuale l’esclusione si è radicalizzata. Come pensa si possano tradurre in scrittura, oggi, questi cambiamenti?
Grazie al fatto che le condizioni economiche sono di per sé fluttuanti, persone  una volta sicure della loro posizione oggi si trovano marginalizzate e escluse anche dalla rappresentazione sociale: perciò nella mia ricerca ho provato a riportarli al centro dell’attenzione, per renderli visibili. Un compito per il futuro è riuscire a far sì che questi soggetti che si definiscono «subalterni», possano formare delle comunità solide, anche perché la strategia egemonica è quella di dividerle, ma sappiamo che solo come comunità possono acquisire un certo potere.  

Il corpo femminile è spesso al centro della sua scrittura, anche nei saggi, che riflettono sulla posizione marginale delle scrittrici in America Latina, sul rapporto tra corpo e scrittura e sull’idea di maternità, che ha interessato peraltro molte autrici latinoamericane, da Lina Meruane a Guadalupe Nettel a Jazmina Barrera. Lei da che prospettiva guarda a questo tema?
Questa è un’epoca in cui si può dire che la madre è morta, nel senso in cui Nietzsche lo diceva di Dio. Morta è comunque l’idea di una  identità sacrale della madre: le nuove tecnologie riproduttive consentono di superare i limiti dei nostri cicli biologici e mi sembra dunque interessante che proprio adesso si torni a ripensare il significato della figura materna, adesso che l’utero può diventare una fonte di reddito, come accade per le donne più povere o senza un sostegno sociale. La nostra cultura forse non ha ancora affrontato queste nuove situazioni in tutta la loro profondità, ma sarà necessario farlo ora che ci si libera dei ruoli assegnati per secoli, se no questi cambiamenti rischieranno di trasformare la maternità in un processo totalmente passivo, con una valenza solo tecnologica e economica.

Molto prima che diventasse di moda, lei ha praticato una costante ibridazione dei generi letterari. Esistono, secondo lei, temi, eventi, situazioni la cui tragicità non permette la traduzione in finzione letteraria e esige invece la voce del testimone nella sua assoluta nudità?
Alcune volte la finzione è tanto più efficace della testimonianza, proprio perché riesce a penetrare in zone della soggettività altrimenti inaccessibili. Alcune scritture testimoniali, al contrario, sono troppo centrate sulla soggettività e impediscono di aprirsi all’altro. Dipende da come si elabora l’io narrativo, tanto finzionale che personale: a volte, come nelle migliori scritture testimoniali latinoamericane, si riesce a rompere il circolo della propria individualità, e allora storie personali diventano anche collettive. 

Nel suo romanzo «Mai e poi mai il fuoco» si assiste a una specie di resa dei conti che riguarda l’impegno politico, le prospettive rivoluzionarie, tutto il passato della sinistra latinoamericana. Il titolo proviene da una poesia di César Vallejo, «I nove mostri», che si pone la stessa domanda sul rapporto tra arte e politica, per concludersi con l’affermazione che comunque «c’è ancora moltissimo da fare». Lei cosa ne pensa?
I sistemi che producono tecnologia, e dunque anche ideologie, sono formative delle soggettività contemporanee: non si limitano a circondarci, così come la nozione di classe produce soggettività e cultura. Ma oggi questo è un concetto più sfumato, il neoliberalismo si preoccupa di più delle identità individuali, che rivendicano le loro differenze e allo stesso tempo frammentando il corpo sociale generano distanza, o a volte conflitto, tra i gruppi. Il Cile presenta forse il caso di neoliberalismo più avanzato di tutta l’America Latina, in cui è stata promossa una cultura del selfie, del tutto anticomunitaria. Essa ha occupato lo spazio letterario, diffondendo scritture concentrate sulla vita privata, sui problemi di coppia e relativi ai figli, questioni presentate come le sole degne di attenzione. Come ogni genere di letteratura, anche questa ha un segno politico, ma oggi forse ne stiamo uscendo, vedo uno sguardo più aperto, più comunitario. 

Quando ha iniziato a pubblicare all’inizio degli anni Ottanta, lei ha subito una specie di emarginazione editoriale, i suoi libri erano introvabili fuori del Cile e anche all’interno non avevano una grande diffusione. Oggi invece si pubblicano in molte lingue: come ha vissuto questo passaggio?
In realtà il mio problema cruciale continua a essere se riuscirò a terminare il prossimo romanzo: è stata sempre questa la mia preoccupazione principale e non mi è servito pubblicare tanti libri, perché ogni volta torna in me la paura di non poter finire quello che sto scrivendo, mi ritrovo sempre nella stessa zona di incertezza. Non ho mai avuto un agente letterario e tutto è nato dai contatti personali con persone che si offrivano di tradurre i miei libri. Certo, la nostra organizzazione sociale non è pensata per chi desidera scrivere, e continuare a farlo significa per me anche rompere un po’ questo disegno sociale.