Nelle sue ultime conferenze Hans Georg Gadamer ripeteva spesso che la coscienza della seconda metà del Novecento non aveva più strumenti adeguati a capire il clima intellettuale della Germania di Weimar. Per constatare l’enorme distanza fra quell’epoca di grande riorientamento della cultura tedesca e il passo prudente, persino timoroso, del pensiero contemporaneo bastava pensare, sosteneva, ai titoli delle opere che si scrivevano in quella stagione: dal Tramonto dell’occidente alla Posizione dell’uomo nel cosmo da Essere e tempo alla Filosofia delle forme simboliche (per fare solo qualche esempio). Confrontati ai tanti «contributi» alle tante «note» e «postille» della riflessione saggistica o filosofica contemporanea quei titoli sembravano provenire da un’altra realtà.

L’afflato universalistico, l’ambizione a definire in grande stile i contorni di un mondo apparentemente disponibile a piegarsi verso molteplici tentativi di descrizione e comprensione erano andati perduti nel corso dei terribili anni trenta e quaranta. La ferita del nazionalsocialismo aveva spazzato via l’illusione di poter giungere a restituire una nuova e credibile rappresentazione intellettuale del mondo.

In Benjamin il riferimento
Nonostante l’apparente incolmabilità di questa distanza – o forse proprio in virtù di essa – il pensiero tedesco del secondo dopoguerra ha cercato più volte di riaprire la partita lasciata aperta dalla traumatica fine della cultura di Weimar. Lo stesso Gadamer, in Verità e metodo, cercò di riprendere il filo della riflessione ermeneutica del primo Heidegger; ma il principale problema di fronte al quale si trovava chi intendeva riesplorare l’alveo della cultura weimariana non stava nel riprendere una specifica direzione da continuare e approfondire, bensì nel ricostruirne un quadro più ampio possibile per giungere a comprendere le potenzialità inespresse delle sue contrastanti, e persino paradossali espressioni. Furono dunque gli autori in cui questa contraddittorietà si manifesta con maggior forza a diventare presto oggetto di attenzione per i filosofi e i critici più sensibili alla riscoperta del rimosso della cultura tedesca: Walter Benjamin prima e più di tutti, proprio per la libertà della sua posizione intellettuale negli anni di Weimar; ma poi anche quegli autori largamente compromessi dalla successiva collaborazione o dalla collusione con il regime nazionalsocialista, il cui significato non poteva però essere esaurito da una sommaria seppur legittima condanna.

Sia pure in modi diversi, Benjamin, fu dunque il riferimento più importante per gli intellettuali e gli autori ebraico-tedeschi del dopoguerra fino a diventare oggetto di una vera e propria disputa fra sostenitori e avversari dell’amministrazione francofortese della sua eredità; naturalmente non fu solo né principalmente intorno a Benjamin che insorsero le maggiori controversie. Critica era soprattutto la questione del rapporto ancora possibile con i filosofi più rappresentativi e al tempo stesso più politicamente compromessi del quindicennio weimariano: Heidegger, naturalmente, ma anche e forse principalmente Carl Schmitt.

Ancora oggi non esiste una ricostruzione compiuta del duro confronto che per almeno tre decenni vide contrapporsi e schierarsi il mondo culturale e accademico tedesco lacerato dalle ferite del passato. Da questo intricatissimo quadro emergono a volte vicende e figure straordinariamente significative che aggiungono un nuovo tassello all’immagine di quella lunga stagione intellettuale: tra queste, Jacob Taubes – le cui opere sono state ripubblicate in ordine sparso a partire dagli anni Novanta – è forse la figura più significativa: di lui si sa ormai molto anche in Italia, soprattutto grazie alle traduzioni e agli studi di Elettra Stimilli, e da tempo ne è nota la libertà intellettuale che lo condusse – da ebreo e pensatore legato alla sinistra radicale – a intrattenere rapporti con diversi intellettuali della destra più conservatrice. Peter Szondi, suo collega alla Freie Universität di Berlino, scriveva di lui a Adorno: «Averlo per collega costringe a compromessi (…). Ha una certa tendenza a presentare ai suoi studenti ospiti come Adorno e Habermas, ma anche Gadamer e Henrich, passando dagli uni agli altri con aria di superiorità, come stesse al di sopra di entrambe le parti».

La mediazione di Mohler
I rapporti di Taubes con Carl Schmitt, mediati inizialmente da un altro storico rappresentante della destra intellettuale tedesca, Armin Mohler, sono noti da tempo e sono già stati parzialmente resi pubblici da un libretto del 1987 apparso dieci anni dopo in italiano (In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, a cura di Elettra Stimilli, Donzelli 1996). Ora, a sei anni di distanza dall’edizione tedesca, Adelphi pubblica un volume di lettere e documenti ben più corposo – Ai lati opposti delle barricate Corrispondenza e scritti 1948-1987 (a cura di Herbert Kopp-Oberstebrink, Thorsten Palzhoff, Martin Treml, edizione italiana a cura di Giovanni Gurisatti, pp. 362, euro 42,00) – in cui la vicenda dei rapporti personali fra il filosofo e rabbino Taubes e l’antisemita dichiarato Schmitt emerge in modo assai dettagliato.

Gli scritti contenuti nel volume non esauriscono la questione del rapporto che affiora ovunque negli scritti di Taubes, ma la chiariscono ampiamente: ed è un chiarimento essenziale, essendo questo rapporto – giudicato, a suo tempo, scandaloso – senza dubbio un fenomeno singolare. È infatti vero che la sinistra aveva riaperto a partire dagli anni Sessanta il protocollo Schmitt; ma nessun intellettuale di origini ebraiche aveva osato aderire a questa rivalutazione del giurista, la cui riconosciuta grandezza intellettuale non poteva cancellare la sua storia. Lo stesso Taubes esitò a lungo – come ricorda in una famosa memoria ripubblicata anche in questo volume – prima di andare a Plettenberg, e lo fece solo dopo aver appreso che anche il da lui ammirato Alexandre Kojève era solito far visita a Schmitt.

Le lettere permettono ora di ricostruire la storia di questo rapporto durato, con lunghe pause, per dieci anni, durante i quali Taubes, rotti gli indugi, tentò in diversi modi di riportare il riottoso Schmitt all’attenzione e al dialogo pubblici. I documenti raccontano la preparazione dei seminari dedicati a «Ermeneutica e teologia politica» e al tricentenario di Thomas Hobbes; il tentativo di ripubblicare per le edizioni Suhrkamp – un fortino francofortese – Amleto o Ecuba, il più significativo documento del confronto di Schmitt con Benjamin; la progettazione dei tre volumi dedicati alla teologia politica, il primo dei quali apparve con il titolo Carl Schmitt e le sue conseguenze. E, soprattutto, il carteggio e i documenti mettono in chiaro come il rapporto con Schmitt non sia un episodio anomalo o di assoluta singolarità nella storia di Taubes, bensì lo sbocco più evidente di un pensiero che ha coerentemente cercato di svilupparsi dal confronto antagonistico con le idee della destra radicale secondo il modello, come sempre, di Benjamin.

Un confronto radicale
Nel più noto degli scritti dedicati a Schmitt (presente anche in questo volume) Taubes ha definito il giurista cattolico «un apocalittico della controrivoluzione» con il chiaro intento di farlo figurare come l’opposto di sé stesso in quanto «apocalittico della rivoluzione». Ricordando però poco dopo che anche Benjamin, secondo il corretto giudizio di Scholem, si era sempre occupato, con l’unica eccezione di Bertolt Brecht, «solo di autori cosiddetti reazionari» da Baudelaire a Proust e a Stefan George. Sappiamo oggi che la critica alla modernità di quelli che Antoine Compagnon ha chiamato «gli antimoderni» ha alimentato largamente la cultura della sinistra europea.

Taubes è certamente un esponente radicale di questa cultura nutrita da ciò che le è, in apparenza, profondamente estraneo. Non a caso, a guidarlo verso il confronto con gli autori del pensiero reazionario tedesco fu, forse più di ogni altro, il suo compagno di studi Armin Mohler, il teorico della rivoluzione conservatrice, le cui lettere di Mohler contenute nel volume sono tra i documenti inediti più interessanti. Taubes ha spinto, tuttavia, questo confronto fino a estremi rischiosi. Certo, il suo atteggiamento dialogante, per quanto antagonistico, è del tutto avverso al presupposto assoluto del concetto del politico schmittiano, l’opposizione amico-nemico. E anche la «seduzione del nazismo» di cui parla in una lettera a Mohler del 14 febbraio 1952 e poi ancora nel tardo scritto La storia Jacob Taubes-Carl Schmitt è inammissibile per Taubes: non solo, e forse non tanto, per la scelta della parte (variamente giustificata altrove come una conseguenza estrema della disposizione hobbesiana del giurista a salvare a ogni costo lo Stato dal caos) quanto per il cedimento dell’atteggiamento critico e raziocinante alla fascinazione dell’antiliberalismo radicale.

Il rischio si annida però laddove Taubes cerca di portare sul suo «lato della barricata» il pensiero teologico-politico schmittiano. Lo chiarirono molto bene gli editori della Teologia politica di San Paolo, Aleida e Jan Assmann e Wolf-Daniel Hartwich nella loro importantissima postfazione a quel volume, osservando che l’idea del potere come incarnazione della maestà di Dio assumeva in Schmitt e Taubes le forme opposte della rappresentanza del potere stesso nel sovrano o nel popolo.

Schmitt è per Taubes il classico pensatore della rappresentanza del divino nel sovrano tanto quanto lui stesso lo è dell’immediata incarnazione del potere divino nel popolo: in ciò risiede il senso della fondamentale distinzione ripetutamente operata da Taubes fra colui che pensa la questione del potere a partire «dall’alto» e colui che la pone «dal basso». Dietro questa visione apparentemente anarchica della sovranità si nasconde il rischio del pensiero di Taubes. È il rischio implicito in una concezione mistica del «popolo» come interlocutore diretto della divinità: ed è un rischio tutt’altro che casuale.
L’idea della immediata unità di Dio e popolo è infatti centrale nella riflessione di un altro degli autori del pensiero reazionario degli anni Venti che Taubes ha più presente: quell’Oskar Goldberg, autore del quasi dimenticato libro La realtà degli Ebrei, cui Taubes dedicò il saggio Dal culto alla cultura con il preciso intento di rivalutarne l’opera.

La distanza che separa Taubes da Schmitt non è quindi solo determinata dal fatto di occupare «i lati opposti» di una barricata intellettuale, religiosa e storica, bensì – come indicano in modo evidente molti, preziosi documenti del volume adelphiano – dalla diversa declinazione di una teologia politica, inevitabilmente esposta al pericolo di una visione sacrale del potere e dei suoi attori dai tratti scopertamente antilluministi e antiliberali.

La tensione apocalittica del pensiero rivoluzionario di Taubes mostra sì, come osserva Giovanni Gurisatti nella sua introduzione, una prospettiva di redenzione, ma resta legata a una vertigine nichilista, che è poi il retaggio più provocatorio e inquietante della cultura della destra weimariana.