Leggendo Cuba Altravana, nell’elegante edizione di Giulio Perrone editore (pp. 212, euro 15), ci s’immagina il suo autore, Davide Barilli, vivere con lentezza i luoghi che racconta, lo spirito del disincantato osservatore, seduto in un esquina, un bar dell’angolo a sorseggiare un buon rhum, un Cofinal y Alegria per esempio, o ad ascoltare El solar de la California.

IL SUO SGUARDO non è quello dello straniero meravigliato, ma di chi per vent’anni è tornato a Cuba diventandone intimo fino a conoscerne tutti i segreti, in grado di cogliere nei tanti ritorni – questa sembra essere la vera missione del libro – la sua bellezza nel momento della perdita, quella che chiamano «decubanizzazione», nella città in liquidazione aggredita dai feticci tecnologici del «nemico imperialista», «un reperto di una leggenda, di qualcosa che rimane a discapito di tutto». Uno capace di «invischiarsi nella placenta tropicale della città vissuta di strada in strada, di casa in casa», come scrive, «per assaporarne la vita che pulsa».
Non solo la voce che racconta, quindi, è seduttiva, ma immaginiamo anche il corpo che esplora, desidera, suda, immagina dal vero nel modo empatico del reportage di viaggio, quello umano tout court, si butta a capofitto nel canone esistenziale cubano segnato da una cifra assoluta contenuta in una parola simbolo, eventual, dove in un quotidiano magico possibile e impossibile trovano un vertiginoso punto d’incontro.

CON UNA LINGUA prensile, molto espressiva, e uno stile secco, concreto, che mai si concede assoli o divagazioni, Davide Barilli scrive un libro bello e polifonico, incrociando descrizioni di luoghi e di epoche, un’ampia letteratura di riferimento, canzoni, personaggi indimenticabili, come il curandero Filiberto, o meglio ancora Reynaldo, il vecchio custode del Campoamor, «morto, travolto dal crollo della parete dello scenario del suo teatro», metafora perfetta di un mondo in disfacimento.

IL LETTORE lo segue curioso mentre si perde camminando nelle calli o viaggia per pochi pesos a bordo di un mandorlone, Cadillac o Chevrolet scassati degli anni ’50 dove puoi incontrare «contadini con la borsa piena di cipolle, ballerine, casalinghe, rapper con lo stereo a tutto volume» all’improvviso degusta «un pesce spada di un metro e mezzo ai bordi di una strada trafficata», o incontra lo scrittore Pedro Juan Gutiérrez, il Bukowski cubano, in un quartiere del Centro Habana. In questo viaggio di viaggi, che Barilli compie da «esploratore felice», racconta luoghi, dove la sua memoria ha un debito di riconoscenza, come l’hotel Lincoln, il Palacio della Rumba, popolato da «vecchie coppie che la musica ha bloccato nel tempo di un’eterna giovinezza», il Payret, «il cinema più grande e popolare dell’Avana», posti dove incontra gli scrittori più importanti dell’Isola, con i quali dialoga alla Fortezza di San Carlo della Cabaña, dove si tiene l’annuale Feria Internacional del Libro, in cui qualcuno «sostiene che si vendono più birre che libri», o all’Uneac, la sede che ospita gli artisti cubani, dove «c’è chi come Alberto Guerra sta scrivendo il suo romanzo seduto all’ombra di una palma».

Il 26 novembre 2016, giorno della morte di Fidel Castro, l’autore è nella Capital, capta i sentimenti contrastanti della gente, che pendolareggiano tra un passato glorioso «che piange la giovinezza perduta» nella Rivoluzione e un futuro che è un salto nel vuoto. Dilemma che ogni cubano racchiude nella frase sibillina «No es fàcil».

L’IMMAGINE dell’isola caraibica è ben rappresentata dagli ascensori dell’hotel Deaville, dove convivono, vicini e insieme lontani anni luce, il vecchio Scherbinsky di fabbricazione russa, «un tugurio di ferro acciaccato, maleodorante, che ogni tanto si blocca, cigolando», insieme a quello nuovo e avveniristico «computerizzato, lustro e levigato come un’astronave in partenza», addirittura «parlante», che «accoglie gli ospiti con un internazionalissimo good morning, augurando a ogni termine corsa una buona giornata».